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L’esordire con un titolo così altisonante, riferendosi a un concetto filosofico certamente nobile ma per molti oscuro quale è il termine di derivazione greca epistemologia, significa probabilmente condannarsi a non essere letto. Un rischio quest’ultimo che chi scrive deve sempre mettere in conto, ma che aggiungendo a fianco della parola suddetta l’aggettivo triadica pare divenire certezza. Voglio invece invitare il lettore a non lasciarsi sopraffare dalla paura di trovarsi a che fare con contenuti totalmente alieni da se stessi e dai propri interessi, ma di continuare nella lettura con generoso slancio. Questa premessa può apparire futile e affettatamente moralistica ma non è priva di senso. Una delle difficoltà più grandi che le società di oggi manifestano è proprio quella che a fronte di una continua sovraesposizione di informazione assistiamo a una lenta incapacità sia di approfondire che di farsi carico della fatica che la vera conoscenza comporta. Dunque riscoprire il significato antico del termine greco epistemologia, e l’autentica forza del suo contenuto teorico che sta alla base dell’idea stessa di scienza, non può non interessare tutti coloro che si interrogano sulla eticità di ogni approccio scientifico e in definitiva sul vero senso dell’agire umano. Rimettere in gioco questi concetti significa riaprire l’utile diatriba sul rapporto che intercorre tra la responsabilità di ogni soggetto e la dimensione sociale in cui il suo agire si contestualizza.

Per epistemologia s’intende lo studio dei criteri generali che decidono sulla possibilità di fare distinzione tra quello che può ritenersi un giudizio di tipo scientifico (episteme) da quello di una mera opinione (doxa), in sostanza mira a individuare i fondamenti e i limiti di validità di ogni sapere. Il termine tradotto alla lettera sta a cavallo tra due significati precisi. Da un lato è sinonimo di teoria della conoscenza (gnoseologia) e dall’altro si riferisce alla filosofia della scienza. I due significati sono dunque fortemente legati fra loro e ciò non deve stupire in quanto ogni conoscenza, intesa nell’accezione moderna sia essa rivolta alla metafisica che alla matematica, non può prescindere dall’idea di un approccio che sia in sé scientifico. A questo proposito mi propongo di commentare, su segnalazione del Dott. Davide di Francia, l’intervento di Ettore Perrella nella giornata di studio “Gregorio Palamas e la ricerca di una nuova epistemologia” svoltosi a Venezia-Salonicco dal titolo “Verso un’epistemologia triadica”.

La tesi di fondo dell’articolo consiste nel tentativo di ricreare un rapporto su basi nuove, ma fondate nella storia secolare del pensiero filosofico, tra la ricerca scientifica e la riflessione etica attraverso la rilettura dei fondamenti della scienza a partire da Platone e Aristotele, passando per alcune intuizioni del teologo bizantino Gregorio Palamas (1296-1359) fino alla fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl (1859-1938). In pratica si tratterebbe di ristabilire nell’ambito della scienza moderna, oggi esclusivamente pensata in un ambito logico e ontologico, di un riferimento all’atto (e quindi all’etica) in modo da rendere la scienza stessa non più diadica bensì triadica, cioè tenendo conto nella sua applicazione della logica (la ragione), dell’ontologia (il mondo) e dell’etica (l’atto).

Perrella si inoltra nella ricerca delle basi fondanti della scienza moderna che affonda le proprie radici in alcuni principi stabiliti dallo stesso Aristotele e rimasti immutati. Come del resto la stessa logica, anche la scienza si basa su presupposti assiomatici e dunque indimostrabili. Ma ciò che più importa a Perrella è sostenere che anche sulla questione dell’“uno” la concezione aristotelica ha prevalso su quella platonica semplificando i problemi in merito all’essenza e alla sua origine. Citando dall’articolo: “Per Aristotele un ente è uno perché ha un’essenza, mentre per Platone un ente ha un’essenza solo perché, in quanto uno, partecipa di quell’uno sovraessenziale che determina la sua essenza proprio perché assegna ad essa – come a qualunque altro ente – la sua unità.” E da qui che allora nascono i problemi o quantomeno i percorsi diversi che segneranno la storia della scienza e il suo rapporto con la filosofia. Ma citiamo ancora un altro passo dell’intervento: “…per Aristotele l’uno dipende dall’essenza, mentre per Platone è l’essenza a dipendere dall’uno.” Se infatti prevalesse l’idea di Platone che è l’essenza a dover fare i conti sempre e comunque con un qualcosa che la trascende e la determina di volta in volta, anche la scienza non potrebbe fare a meno di non occuparsene e ciò cambierebbe, e di molto, la prospettiva di ogni agire scientifico. Infatti Perrella sottolinea come: “…quella platonica, invece, pone direttamente il problema della fondazione della scienza, ma lo fa solo in un modo sfuggente, tanto che sembra aprire sulle prospettive d’una mistica della quale la scienza moderna ritiene non solo di potere, ma di dovere fare a meno…”.

Ed è qui che Perrella tocca il nodo cruciale, e decisamente attuale, su cui vale la pena soffermarsi. Parlare di “origine”, “essenza”, “Dio” nel pieno dispiegarsi della nostra civiltà dei consumi, dove ogni ritmo di vita si conforma alle esigenze del capitale, sembra macchiarsi di eresia. Solo perché si vuole affrontare queste tematiche, che nei fatti fanno parte del linguaggio profondo dell’animo umano, si viene tacciati di essere fuori dal mondo oppure, che è anche peggio, vicini alla Chiesa del Papa teologo Ratzinger, al quale solo è ormai concesso di discernere in merito e con giusta causa. E pensare che su quelle domande fondamentali è cresciuta l’intera civiltà occidentale segnando la propria storia e determinandone i tratti più caratteristici ed elevati. Intorno a questi problemi essenziali si sono formati non solo grandi filosofi e teologi ma anche l’intera società civile che da quelle analisi mutuava elementi di rottura contribuendo a fondare percorsi di emancipazione reali perché sostenuti da un pensiero rigoroso in continua evoluzione e strutturazione. Per fare un esempio, senza il “Discorso sul metodo” di Cartesio o l’“Etica” di Spinoza, che non eludevano certo quelle domande fondamentali ma a esse rispondevano in modo nuovo, nemmeno la borghesia europea, sospinta dal vento francese dei “lumi”, avrebbe trovato quella forza per imporsi e cambiare i destini dell’occidente. Non a caso Husserl sostiene, a questo proposito in un passo spettacolare per chiarezza e lucidità, come il Rinascimento in Europa tragga il suo spirito vitale e creatore da una rinnovata concezione della filosofia antica e in particolare da Platone: “Com’è noto, l’umanità europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare. […] Che cosa considera essenziale dell’uomo antico? Nient’altro che la forma “filosofica” dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. La prima cosa è la teoresi filosofica. Dev’essere messa in atto una considerazione razionale del mondo, libera dai vincoli del mito e della tradizione in generale, una conoscenza universale del mondo e dell’uomo che proceda in un’assoluta indipendenza dai pregiudizi – che giunga infine a conoscenza nel mondo stesso la ragione e la teleologia che vi si nascondono e il loro più alto principio: dio. La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma rende libero anche qualsiasi uomo che si sia formato sulla filosofia. All’autonomia teoretica succede quella pratica. Nell’ideale del Rinascimento l’uomo antico è quello che plasma se stesso esclusivamente in base alla libera ragione. Per il rinnovato “platonismo” ciò significa: occorre riplasmare non soltanto se stessi eticamente, ma anche l’intero mondo circostante, l’esistenza politica e sociale dell’umanità in base alla libera ragione, in base alle intellezioni di una filosofia universale”.

Eppure bisognerebbe interrogarsi sul perché oggi ogni aspetto della vita umana, dalla scienza al lavoro dal più banale evento quotidiano alle tendenze “culturali” dei mass media, abbia pressoché rimosso l’abitudine e l’interesse per quelle domande fondamentali, che non siano poste sotto quella forma di una melensa volgarizzazione da offrire a telespettatori svogliati e “telecomandati”. La stessa politica su questi temi non fa che schierarsi per esclusiva opportunità in un campo (quello del totale ossequio alla Dottrina della Chiesa cattolica) o nell’altro (il mero rifiuto pregiudiziale a qualsiasi tentativo di discussione) a seconda dei presunti vantaggi che ne potrebbe trarre piuttosto che per acquisire competenze o desiderio di conoscenza. Ma il bisogno resta e le numerose e inaspettate presenze, a ogni edizione del Festival filosofia di Modena, attestano la non ineludibilità dei temi di cui si va discorrendo.
Ma torniamo a Perrella. Che cos’è allora questo “uno” si domanda l’autore. Se l’essenza come afferma Platone è determinata dal sovraessenziale (cioè dall’uno) “sembra impossibile dire che cosa sia questo uno, perché tutte le parole che useremmo assegnerebbero ad esso un’essenza, tradendone la natura”. Non solo. Aristotele come si è detto afferma che la natura dell’ente è determinata dalla sua essenza e quindi è la stessa essenza attraverso precisi atti a stabilirne le caratteristiche proprie. La natura di questa impostazione porta a due immediate conseguenze. La prima consiste nel comprendere che per fare scienza “è sufficiente non alterare i dati evidenti forniti dall’osservazione delle cose e dal ragionamento”; la seconda che “quando questo criterio non è applicabile, come nel caso dei comportamenti umani (e quindi nel campo dell’etica), la scienza ha uno statuto totalmente diverso, perché presuppone una valutazione di tali comportamenti, la quale non fa parte della definizione ontologica e logica (i nostri atti, quindi, avrebbero una natura del tutto eterogenea rispetto a tutti gli altri oggetti del sapere, vale a dire a tutti gli altri enti)”.

Ed è qui che si apre una vera e propria contraddizione. Se infatti da un lato la logica diventa lo strumento per indagare l’ontologia e per ontologia si intende lo studio dell’essere nelle sue varie essenze (quindi del mondo), dall’altro “si distingue radicalmente la scienza – logica e ontologica – dalla morale, considerata identica all’etica”. Questa contrapposizione che ha i suoi prodromi in Aristotele si consolida in tutto il pensiero successivo oltre Kant. Se infatti gli atti sono le manifestazioni di ciascuna essenza che agisce in maniera preordinata ne deriva “che la scienza è scienza di assoluti e che l’assoluto (“Dio”)” – che possiamo anche chiamare uno – “non può essere oggetto di scienza perché non interviene nel mondo se non come un’ipotesi non necessaria.”

A questo punto risulta sancita la separazione fra una concezione etica (intesa come una riflessione a tutto tondo sull’agire umano), non tanto della scienza in senso stretto ma quanto del conoscere, e la logica e l’ontologia. Scrive Perrella: “Il mondo, in questo modo, è concepito al tempo stesso come un assoluto e come del tutto estraneo all’assoluto: di conseguenza esso è al tempo stesso divinizzato e privato di ogni principio sovramondano. In altri termini ci troviamo in un’idolatria nutrita di ateismo.” La scienza così impostata appare come “una forma contraddittoria di scetticismo (almeno sui propri principi) e lo scetticismo altro non è che l’ateismo in forma gnoseologica.” E allora per Perrella l’attuale “crisi delle scienze europee”, citando Husserl, “inizia molto prima del sorgere della scienza galileiana.”

Pensare a una suddivisione dei quattro campi classici del sapere quali la metafisica, l’ontologia, la logica e l’etica ha portato nel corso dei secoli a far sì che ciascuna disciplina, se così la possiamo definire, si sia lentamente specializzata in modo tale da escludere le altre dall’analisi intorno ai propri oggetti di indagine. Ma può la scienza, si chiede Perrella, non trattare minimamente il contenuto del proprio fondamento, dimenticando che la filosofia (la questione del fondamento è un tema prettamente filosofico), in origine, era nata per pensare l’uomo e le sue attività con un unico sguardo, con un’unica prospettiva visto che, per dirla alla Perrella, “le tre3 regioni della scienza non si differenziano in base alla natura dei loro oggetti, ma in base a quella del modo in cui li consideriamo”?

E’ difficile dare allora torto al ragionamento di Perrella che evidenzia come: “l’antitesi fra scienza e filosofia non solo è immotivata, ma finisce per falsificare lo stesso contenuto che diamo alla parola “scienza”. Senza nulla togliere alle radicali differenze di metodo fra le scienze esatte, quelle a torto o a ragione chiamate umane e la filosofia o la religione, non vi è nessun motivo per non interpretare queste differenze come articolazioni interne a un solo criterio di ragione, che si manifesta con varie riduzioni, ma senza nulla perdere della propria unità.”

E’ a questo punto dell’esposizione di Perrella che entra in gioco il pensiero di Gregorio Palamas e con lui tutta la tradizione che si rifà a Platone e al neoplatonismo. In sostanza ciò che si deve mettere in gioco è in quale modo una scienza deve essere fondata. E’ lo stesso Perrella ad avvertire che fare riferimento a Palamas, teologo del XIV secolo, può sembrare alquanto arcaizzante e poco utilizzabile ai fini di una scienza moderna, ma così non è. “Per Palamas – scrive Perrella – la sola scienza fondata è quella che tiene conto della necessaria relazione fra l’atto (sovraessenziale) e la natura (l’essenza).” Dunque il tema decisivo che si ritrova in Palamas, e che si vorrebbe attualizzare, è la funzione dell’atto come parte ineludibile di ogni ricerca scientifica, vale a dire l’impossibilità di prescindere dall’etica (intesa come dimensione dell’atto nella sua prospettiva), in un’epistemologia che si vuole ora triadica e non più diadica, cioè pensata esclusivamente su un piano logico e ontologico. A supporto di questa tesi Perrella chiama in causa Husserl il quale, ponendo con forza la fondazione trascendentale della scienza e in vista dei suoi trascorsi non potendo certamente essere tacciato di sospetta teologia, anche se in termini diversi pone lo stesso tema di Palamas. “Che cos’è il soggetto trascendentale – si chiede Perrella – da Cartesio a Husserl, se non la traccia, nell’ente, dell’atto di ragione nella fondazione del sapere?” E di conseguenza: “Nell’argomentazione trascendentale il “sum” (cioè l’essere n.d.a.) è dimostrato dall’evidenza inaggirabile del cogito, vale a dire dell’atto di pensare. In effetti, la verità di cui si tratta nella logica trascendentale non è prodotta soltanto dall’accordo fra l’intelletto e la cosa o fra la parola e l’ente, perché questo accordo non si produce che nell’atto di riconoscimento fondativo del sapere. In effetti è solo grazie a degli atti che il sapere prodotto dalla scienza può essere realmente quel sapere vivo che chiamiamo, a torto o a ragione, soggettivo. E, senza questa dimensione immediatamente etica, il sapere della scienza non potrebbe avere nessuna concretezza, quotidiana ed etica, per chi se ne occupa ogni giorno.”

Per dimostrare che l’elemento trascendentale non solo fonda ma è la prova stessa dell’impossibilità di scindere l’atto dal pensiero che ne interpreta il mondo, Perrella porta l’argomentazione della cosiddetta “Consequentia mirabilis” che consiste nella “prova con la quale, all’interno di un sistema logico, si dimostra che, “se, dalla negazione della proposizione A, si deduce A, allora A è vera””. Nell’intenzione dell’autore questa dimostrazione serve a evidenziare che qualsiasi approccio logico-formale viene “bucato”, cioè reso incoerente, dal fatto che comunque la logica stessa “deve essere necessariamente aperta, per un verso, agli enti rispetto ai quali sono formulate le proposizioni, per un altro, a un atto di negare o attribuire verità alle proposizioni stesse.” Dunque “è proprio l’atto di enunciare una negazione a dimostrare la verità di un’affermazione” e l’atto della negazione ha a che fare strettamente con l’enunciazione di molti principi di ragione. Infatti: “esistono principi di ragione che non possono essere negati senza negare, con questo, la loro negazione. E questa è appunto una prova, per niente assiomatica e totalmente autoevidente, di quegli stessi principi.”

L’articolo si conclude con la considerazione finale che “nessuna prova logica è tale se non perché fa emergere nella proposizione una verità che dipende al tempo stesso dall’ente, dalla parola e dall’atto, nella loro triadica unità”.

Dunque la partita non è così scontata e arcaicizzante come potrebbe apparire a una prima lettura. L’invito a considerare la scienza non come un motore autoregolantesi, ma come un elemento fondamentale al disvelamento dei fini ultimi dell’uomo e al miglioramento delle sue condizioni di vita non può che essere auspicabile. La deriva esclusivamente tecnicista che affermazioni del tipo “la scienza si fonda su principi assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica”4, oltre a nascondere una visione positivistica della scienza, non fanno che riaffermare in senso forte quel pericolo che lo stesso Husserl denunciava nella Conferenza tenuta a Vienna il 7 maggio 1935, e ripetuta poi il 10 maggio a furor di popolo, che “le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto”. Lasciarsi abbagliare, come affermava sempre Husserl, dalla prosperità che le stesse scienze permettono al vivere quotidiano dell’uomo, non può servire da giustificazione per l’allontanamento da quei problemi che risultano fondamentali per la costituzione di soggettività autentiche, le quali non debbono dimenticare la propria origine, in primis il pensiero greco, né il senso ultimo che le deve guidare vale a dire la “ragione”, il logos, nella sua più alta accezione. Né si può dimenticare che una montante visione positivistica della scienza causò nel XIX secolo quel distacco definitivo “degli interrogativi specificatamente umani dal regno della scienza”5. Quella errata premessa positivistica, dopo la tragedia bellica della grande guerra, condusse al diffondersi in tutta l’Europa di un sentimento di rigetto di una scienza che sembrava sapesse teorizzare esclusivamente la totale subordinazione dell’uomo alla macchina. La povertà che si riversò su ingenti masse a seguito di una industrializzazione forzata e depauperante, la infuocata tempesta d’acciaio, per citare Ernst Junger, abbattutasi durante la guerra sui combattenti di entrambi i fronti furono dunque gli elementi rivelatori di una tecnica che con l’etica avrebbe avuto ben poco a che spartire. Le conseguenze che si ebbero sui destini delle popolazioni europee furono drammatici e alimentarono i fuochi di un pensiero forte, a fosche tinte reazionarie, che fu lo snodo teorico utile all’avvento del nazismo in Germania e più in generale all’affermazione di quei fascismi che ballarono sulle teste di molti europei e per molti anni a venire.

Il diritto naturale classico, che è stato fondato da Hugo Grotius nel XVI secolo, immaginava la guerra come una “normalità” nelle relazioni internazionali. Il suo concetto regolava le condizioni giuste (modo di dichiarazione ecc.), i mezzi giusti e il giusto comportamento dopo la sua fine. Questa idea prevedeva una guerra che poteva essere fatta da entrambi i contendenti in una maniera giusta.

Le esperienze con la prima e finalmente con la seconda guerra mondiale hanno cambiato questa percezione in una maniera fondamentale. Nel 1928 il patto tra Kellogg e Briand, i ministri esteri degli Stati Uniti e la Francia, fissava per la prima volta a livello internazionale la messa al bando della guerra come mezzo politico. La Carta delle Nazione Unite nel 1945 la definiva come “il flagello dell'umanità”.

Tuttavia, questa presa di coscienza e dichiarazione di intenti non ha creato in alcun modo un mondo pacifico. Né direttamente dopo la seconda guerra mondiale né ai tempi nostri le guerre sono svanite. Benché ci sia una proscrizione della guerra e a volte si veda una gran massa in strada che manifesta la sua volontà pacifica, come all’inizio dell' ultimo attacco statunitense all'Iraq nel 2003, i governi democratici possono mobilizzare anche un sostegno per le loro attività bellicose. In altre parole: non si vede solo una volontà per la pace, ma anche la disposizione mentale e naturalmente materiale a fare la guerra.

Questa disposizione non è limitata ad una piccola classe politica, come si pensava ai tempi dell’assolutismo europeo, dove i monarchi o la piccola classe degli aristocratici decisero per una guerra senza il consenso del popolo. Oggi si vede che anche negli stati democratici il popolo, oppure la sua maggioranza, possono essere convinti della necessità o legittimità di un impegno militare.

Le vittorie elettorali di Merkel in Germania, di Blair in Inghilterra e soprattutto di Bush negli Stati Uniti dimostravano che una politica d’intervento militare può convincere una maggioranza alle urne. Ancora di più: la possibilità dei governi del West - “avanguardia nella lotta per la democrazia e i diritti umani” - di spendere una gran parte del loro prodotto nazionale per le forze armate, la sua notevole capacità di mobilitazione delle risorse personali (servizio militare) oppure la cultura del riconoscimento del servizio militare (che sta cambiando), dimostra l’ampia accettazione e rispetto degli affari militari.

Ma questa accettazione è senza nessuna ragione? L'espressione “guerra giusta” è già un paradosso in sé? I sostenitori di questo tipo di guerre -espliciti o non espliciti- sono forse ciechi? Sono stupidi? O sono senza volontà propria – solo uno strumento per gli interessi dei pochi?
In seguito voglio analizzare qualche aspetto delle ragioni che sottendono alla legittimazione della guerra. Con questo tema non faccio una analisi politica delle “cause nascoste” o dei “veri motivi” degli attori decisivi. Mi interessano piuttosto le categorie morali con le quali si giudica la guerra. E' chiaro, però, che queste categorie devono rendere conto dei fatti. Tuttavia non si possono ridurre le une agli altri.

Tesi uno: la “guerra giusta” è pensabile. Questo vuol dire che ci sono delle ragioni e delle condizioni che possono giustificare l’uso delle armi al livello internazionale.

Ad un primo sguardo l' espressione “guerra giusta” sembra essere un paradosso. Una situazione di giustizia dovrebbe essere una situazione pacifica. Non “la ragione del più forte”, ma il riconoscimento reciproco regolerebbe le relazioni tra le persone. Ognuno e ognuna venerebbero rispettati come esseri con propri bisogni e desideri. E l’unico limite alla propria libertà di esprimersi e di realizzare i propri interessi dovrebbe essere la libertà degli altri. I conflitti andrebbero risolti in un quadro di argomentazione e consenso. La violenza o la forza invece non generano comprensione e rispetto, ma solo sottomissione, ciò vuol dire non una situazione morale stabile, ma una tregua precaria.

Questo concetto ideale indica la direzione di ogni morale universalista. Però la realtà sociale è caratterizzata dagli squilibri di potenza e anche dal disprezzo tra gli esseri umani. I sentimenti e le idee morali sono solo degli imperativi, formulano un dovere non un essere, vuol dire che c’è la possibilità di agire in un modo diverso. Per il mio discorso non importa a questo punto la causa “del male”. Ciò che conta è l'affermazione dei diritti comuni di ogni essere umano e la realtà delle loro lesioni.

Secondo me, si può legittimare l’uso della forza militare per la realizzazione di diritti umani in analogia alla legittimazione del potere dello stato civile. Una sua legittimazione classica si trova nell’opera Kantiana. Kant dice che:

“un’azione è giusta, quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di uno può sussistere con la libertà di ogni altro, secondo una legge universale.”

Per garantire questa legge morale universale si necessita di una forza superiore, neutrale, cioè la forza statale. L’uso della forza verso i suoi cittadini e cittadine può essere giustificato in questo modello solo attraverso l’idea della garanzia della libertà dell’arbitrio dell'individuo. Si deve aggiungere, però, che nella dimensione sociale non conta solo la libertà formale davanti alla legge, ma anche le possibilità materiali di realizzare la propria libertà.

In questo senso l’uso legittimo della forza attraverso lo stato (e deve essere distinto l’uso legittimo dall’uso legale) non è un ostacolo o una restrizione della libertà ma, al contrario, una negazione o una eliminazione di un ostacolo per la libertà.
Nel caso di un intervento umanitario il significato è questo: riguardo ai fatti dei massacri, delle deportazioni e degli altri fenomeni della guerra come la fame, le malattie e le torture, un uso delle forze armate per impedirli e per garantire i diritti fondamentali appare come una negazione di un ostacolo per la libertà o per i diritti umani. In altre parole: non sembra esserci differenza tra una pallottola o un missile sparati da un combattente di un esercito imperialista o da un soldato dei caschi blu. I risultati sono gli stessi: distruzione, mutilazione, morte. C’è, però, una differenza sostanziale: l’una è una lesione dei diritti umani, mentre l’altra è (o almeno vorrebbe essere) la realizzazione o il tentativo di garantire diritti umani.

La conclusione è che un intervento umanitario può essere una guerra giusta, se è intentato come un intervento esterno che vuole garantire i diritti umani. Secondo me questa non è solo una legittimazione, ma anche un dovere morale per un intervento .

Si deve aggiungere che la legittimazione dell’intervento umanitario dipende anche dalla adeguatezza dei mezzi usati e dalla sua prospettiva di successo. Per questo non ha senso rispondere a una deportazione della popolazione di un paesino con il bombardamento di tutto lo stato, oppure alla rimozione militare di un regime che tormenta e massacra parte della sua popolazione con la distruzione completa di una società attraverso una guerra civile con milioni di vittime.

Tesi due: ci sono dei problemi gravi alla applicazione dei criteri morali.
Può sembrare che l giudizio sulla questione della legittimazione di una guerra incombente o reale sia facile. Si vede, però, che la discussione su questa questione può essere molto lunga e difficile. Spesso c'è bisogno di un grande dibattito e di molto tempo per riconoscere quali motivi, interessi e scopi hanno determinato una guerra e chi è stato il colpevole. Per esempio la questione dell'inizio della Prima Guerra Mondiale è stata discussa in Germania per molto tempo. E lo storico Fritz Fischer ha provocato un grande dibattito tra gli storici tedeschi ma anche nella società negli anni 50, cioè dopo 40 anni, quando ha affermato che la colpa per lo scoppio della guerra fosse solo del governo tedesco.
Questo è un esempio per la carenza di informazioni che c’è a vari livelli.

È ovvio che il grado di informazione di un governo è normalmente molto più alto di gran parte della popolazione. Anche una lettura regolare dei giornali e riviste informative trasmette solo una parte del sapere del governo, con tutti i suoi esperti e professionisti. Inoltre il giudizio adeguato della scena politica ha bisogno di esperienza e anche di un sapere storico che permettano una valutazione confacente.
Però anche gli attori politici non agiscono in una situazione di informazione completa. Sono dipendenti da altri esperti e molti giudizi sui fatti o le situazioni nelle altre regioni del mondo, che contengono per la maggior parte valutazioni e calcoli approssimativi invece di un sapere sicuro.

Per l'opinione pubblica il problema viene aggravato dalla “imperfezione” dei mass media. Così l'attenzione del pubblico democratico può essere influenzata nella sua limitata percezione. Alcune immagini crudeli e qualche commentario suggestivo ripetuti mille volte possono creare l'idea di una “nuova Auschwitz” o di un altro genocidio che giustificherebbe qualunque mezzo di forza.

I limiti dell'informazione aumentano quando si vogliono conoscere i motivi veri degli attori politici. Come sapeva già Machiavelli le bugie sono un mezzo utile e diffuso nella politica: una cosa è ciò che dicono gli attori all'opinione pubblica, un'altra sono i loro veri motivi. O come dice Luhmann, l'ipocrisia è il mezzo per una “pubblicità dell'approvazione”. Ciononostante la realtà dell'inganno non è la prova per la amoralità completa della politica. Anzi, il fatto che la politica debba giustificarsi e che ciò le costi molto tempo e fatica, dimostra l'importanza dei sentimenti morali.

Un altro punto già notato è il problema di valutare la probabilità del successo e gli effetti possibili. Per azioni di un certo livello non si possono prevedere tutti gli effetti con sicurezza. Un esempio è l'ultima guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq. Si può affermare che i piani del Pentagono non prevedevano né un crollo completo dello Stato dopo la sconfitta di Saddam Hussein, tantomeno l'attuale guerra civile. (Credo che il giudizio sulla politica di Bush sarebbe ben diverso se solo egli fosse riuscito a fondare uno stato stabile.)

La contingenza del futuro non è solo un problema dell'amministrazione Bush. Per ogni intervento non si può dire con sicurezza se esso avrà successo oppure se peggiorerà soltanto le cose. In questo senso la guerra degli Stati Uniti contro la Germania Nazista è stata un successo, invece il suo intervento in Somalia non può essere considerato tale.

Tutti questi argomenti e limitazioni per il giudizio morale su una guerra non devono suscitare disperazione o cinismo. Non ci si deve e non ci si può astenere sul suo giudizio e non ci si può sottrarre alla propria responsabilità perché anche il non-agire causa degli effetti che possono significare la morte per migliaia di persone.

Questi argomenti non ci devono condurre ad emettere giudizi troppo affrettati. Forse ci spronano a un impegno più grande per trovare il giudizio adeguato e la buona decisione politica.

Tesi tre: Anche il diritto di autodifesa è una ragione per una guerra giusta. L'identità nazionale causa qualche confusione, però. Ella può essere superata con un concetto di giustizia internazionale che tiene conto anche delle dimensioni economiche, sociali e ambientali.

Senza dubbio c’è un diritto di autodifesa. Quando qualcuno mi attacca è mio diritto naturale difendermi. Posso anche scappare via oppure omettere la resistenza se l’aggressore mi sembra troppo forte o temo degli effetti più gravi. Ma se mi difendo con i mezzi adeguati nessuno può contestare che ci sia un mio diritto.

Ovviamente questo diritto vale anche per le entità collettive e anche la Carta delle Nazione Unite riconosce il diritto di di difesa per uno Stato. Una difficoltà di questa analogia dei diritti per un individuo e uno Stato è la soggettività particolare di quest'ultimo.

L'evidenza del diritto è data soltanto alla presenza di certe condizioni. Queste sono la chiara responsabilità della aggressione e la precedente assenza di relazioni tra le parti, ossia la mancanza di cause generanti conflitto. Per esempio: anche il rapporto di uno schiavo col suo padrone può essere tranquillo, pacifico e gran parte della storia umana dimostra che può essere anche legale. Però dal nostro punto di vista morale una ribellione dello schiavo non sarebbe stata un atto ingiusto, perché condanniamo lo stato di schiavitù.
Tra gli stati moderni le due condizioni, assenza di relazioni e chiara responsabilità, non ci sono sempre date. Questo fatto risulta, tra l’altro, dalle strutture economiche concrete e dal fenomeno della violenza strutturale.

Mi devo limitare solo a qualche appunto:
L'economia moderna è in gran parte una struttura globale. Ci sono tante interdipendenze per cui le economie nazionali dipendono eminentemente dagli avvenimenti fuori del loro territorio. La crisi economica mondiale degli anni 30, la crisi del petrolio negli anni 70 o il crollo della borsa in estremo oriente all'inizio del nostro millennio sono gli esempi più illustri di questo fatto. In questi casi abbiamo assistito al crollo di intere economie nazionali, oppure nei casi più fortunati, a danni estremamente gravi. Inflazione e impoverimento, perdita della fede per un buon avvenire, lotte sociali aperte, sono solo alcuni dei tanti risultati negativi di questa crisi.

I pochi esempi mostrano che gli interessi nazionali per una economia forte e stabile non rappresentano solo gli interessi concreti delle classe dominante ma di tutte le classi – anche se i rischi sono ben diversi. Perciò il benessere della popolazione dipende per gran parte dagli avvenimenti e sviluppi che si sottraggono all’influsso della sovranità di uno stato. Gli interessi nazionali – che non coincidono esclusivamente con gli interessi dei ricchi di guadagnare sempre di più – trascendono i confini dello stato e travalicano l'identità nazionale.

Le economie avanzate hanno bisogno di risorse come petrolio, gas, minerali metalliferi ecc. Molti stati, però, sono costrette a importarle dall'estero. Ogni atto sovrano dei paesi che detengono la proprietà delle materie prime può cambiare i prezzi delle risorse (per esempio attraverso la nazionalizzazione o la fondazione di un cartello – come l'OPEC) e influenzare fortemente le economie nazionali dei paesi industriali. In questo senso un aumento dei prezzi delle materie prime mediante un atto unilaterale ferisce gli interessi nazionali e il disturbo della consegna può essere interpretato come un attacco allo stato importatore. Questo è successo negli ultimi mesi quando la Russia ha chiuso per qualche giorno le sue pipelines al west. Il governo tedesco, e un gran parte della stampa, erano molto preoccupati da tale “dimostrazione di potere” e si parlava già di una aggressione di Putin. In altre parole, le aggressioni non hanno solo la forma militare e quasi tutti i conflitti hanno una storia fatta di provocazioni e di escalation. Si potrebbe dimostrare che il sistema capitalistico globale favorisce e provoca i conflitti tra gli stati sovrani.

Un altro punto che confonde la semplice percezione di un aggressore è il fatto della violenza strutturale. Come nell'esempio dello schiavo, che resiste legittimamente contro il suo padrone, ci sono delle strutture globali – anche legali – che causano molte vittime senza sparare alcun colpo. Alcuni esempi – sempre dalla sfera economica – sono le condizioni del mercato mondiale. Le sue regole vengono dettate dai paesi potenti a esclusivo vantaggio delle proprie economie nazionali. Non solo le enormi sovvenzioni per l'agricoltura presenti sia nella Unione Europea che negli Stati Uniti, ma anche le tasse sui prodotti di importazione proteggono i mercati dalle merci dei paesi in via di sviluppo, i quali sono costretti ad aprire i propri ai beni occidentali. Oppure le regole per i brevetti dei prodotti farmaceutici che impediscono la diffusione in massa e a un buon prezzo degli antidoti contro l'AIDS.
È ovvio che non solo i fucili ammazzano ma anche le leggi hanno questo potere.
Si potrebbe aumentare facilmente il numero degli esempi relativi alla violenza strutturale con cui lo stato stabilisce regole che provocano danni enormi. Le relazioni fra i sessi, le cause del cambiamento climatico e altre fattori economici feriscono spesso i diritti umani fondamentali senza che le stesse siano riconosciute come aggressioni violente.

Dopo questo ragionamento abbozzato voglio formulare i risultati e qualche conseguenza che possiamo poi discutere più tardi. Tali risultati si dividono in due tipologie: filosofici e politici.
Per la parte filosofica volevo dire che il termine “guerra giusta” non è un paradosso. Si può pensare l'intervento umanitario come la realizzazione dei diritti umani anche se questo intervento significa molte vittime – sia civili che militari. Non dico che l'azione militare è l'unico modo di intervenire o di pacificare (una parola che non mi piace per via della sua storia). Finalmente, pero, in alcuni casi l'uso delle forze armate – e in particolare delle truppe di terra - può essere l'ultimo e l'unico mezzo per fermare i più gravi e terribili conseguenze. Non si deve dimenticare in questo contesto che anche la diplomazia e il multilateralismo si rivolgono a un potere che hai alle spalle.
Con questi ragionamenti voglio contrastare quella sorta di pacifismo, che possiamo definire “ingenuo”, il quale sostiene un ideale morale per certi versi condivisibile, ma che però non ha a disposizione un concetto, o una pratica politica, generalizzabile. In qualche misura sono anche contrario a una lettura marxista che pensa la politica come una sfera dove la morale non è una forza determinante ma viene solo determinata.

Questo ragionamento mi guida al prossimo punto. La concezione di un ordine morale – morale intesa in un senso enfatico – deve rendere conto anche degli aspetti economici, ambientali, culturali e sociali. Non è sufficiente pensare nelle categorie “vecchie” di una identità fissa e distinta. Una posizione morale – o un concetto di giustizia internazionale – deve criticare lo status quo riflettendo alla base l'idea di un'umanità universale ed egalitaria. A questo punto si deve porre la domanda se gli stati moderni siano in grado di realizzare tale concetto senza cambiamenti essenziali.

Sul piano politico pongo l'accento sulla importanza di un dibatto pubblico. Vorrei fare rifermento ancora una volta a Kant. Egli credeva negli effetti morali di una discussione pubblica. Secondo il suo pensiero, i politici quando devono giustificarsi pubblicamente, sono costretti a usare argomenti capaci di creare consenso. Kant era convinto che questo fatto sarebbe già stato sufficiente a controllare e regolare la politica in una maniera sempre più morale in quanto il popolo non può agire contro se stesso.
Naturalmente si può non condividere la sua opinione. Kant era una autore che rappresentava l'ottimismo di una borghesia nascente. A tale merito le nostre esperienze sembrano porci più dubbi che certezze. Non solo la concentrazione dei mass media in poche mani, la plutocrazia nella sfera pubblica, dove si possono lanciare delle iniziative costose al fine di creare e diffondere un pensiero anti-illuminista, ma anche le dinamiche nascoste che favoriscono l'opinione comune della gente – quali i pregiudizi, le verità solo accennate che si trasformano in falsità. Tutto questo potrebbe farci disperare, e spesso così accade. Cinismo, ignoranza e il ritiro nel proprio ambito privato ne sono le conseguenze.
Per via di queste critiche, però, non si può abbandonare il concetto ideale di costituzione e strutturazione della opinione pubblica . Si deve invece comprendere che questo ideale non è uno scopo che si realizza da se stesso attraverso una necessità storica – come pensava ancora Kant – ma questa deve diventare la nostra sfida: lavorare per un ideale anche se non è realizzabile completamente. In questo senso l'opinione pubblica dovrebbe essere uno spazio per riflettere, discutere e controllare gli affari politici, uno spazio dove si costituisce il consenso ma anche la critica, uno spazio finalmente essenziale per la vita e la coesione delle società democratiche.

In questo spazio la discussione sulla questione della guerra giusta trova il suo luogo. Ed è anche qui che la morale sviluppa la sua forza. Spero che il mio discorso abbia dato indicazioni in merito alla necessità di concepire un concetto sempre più ampio di giustizia internazionale e abbia anche spiegato il dovere di confrontarsi con i problemi morali nel contesto della guerra.

Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Prima - Anthony Appiah: Che cos’è l’Occidente - Carpi, piazzale Re Astolfo, Sabato 15 Settembre 2007.

L’antropologia di Anthony Appiah può essere considerata una sfida rivolta alle forze che lacerano la società contemporanea, che sono alla base dei grandi conflitti culturali e religiosi. Queste lacerazioni sono il prodotto di filosofie che in un modo o nell’altro, a partire dalla fine dell’Illuminismo, hanno contribuito a ricostituire un pensiero dell’esclusione e della diversità. Contro queste tendenze l’obiettivo di fondo del pensatore di origine ghanese è un recupero ed un’attualizzazione del concetto di cosmopolitismo. Lo stoicismo antico, ma anche lo stoicismo romano, specie in Epitteto e Marco Aurelio, ha inaugurato il concetto di cosmopolitismo secondo il quale ognuno, anche colui che non appartiene alla poliV, non è più uno straniero oppure uno schiavo, bensì un cittadino del mondo come ogni altro, che vive secondo un principio razionale universale ed eterno (logoV). La proposta di riscatto dall’odierno conflitto di civiltà di Appiah parte da un principio molto affine al caposaldo della Stoà, per giungere a definire un ideale di cosmopolitismo contemporaneo.

Dalle origini del cosmopolitismo fino alla dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, in seno al pensiero occidentale è esistito il desiderio di realizzare una societas hominum et communitas. Con il tramonto dell’Illuminismo le tracce di questo ideale si fanno sempre più rade, fino quasi a scomparire, mentre si affermano nuove correnti di pensiero che alimentano le fiamme irrazionali dei popoli, la mistificazione dell’alterità, il bisogno e il timore della sopraffazione, come ha fatto, per esempio, un certo Romanticismo. Accade il più delle volte che le concretazioni di tali correnti finiscano per trasformarsi in ciò che Appiah definisce “esagerazioni”. Un’esagerazione è una visione distorta della natura umana generatasi per via di errate interpretazioni della storia, dell’origine delle culture e della costituzione delle nazioni. Si tratta di espressioni del pensiero umano che non solo contribuiscono a generale l’idea che una cultura possa identificarsi con un determinato territorio, un determinato linguaggio, una determinata forma di governo, ma -e in totale controtendenza rispetto agli sviluppi più recenti della storia- non riconoscono un’esistenza di fatto all’ibridizzazione e al multiculturalismo.
L’ideale di una cultura isolata e pura può essere paragonata alla figura leggendaria della pepita d’oro. Appiah accusa la modernità di aver isolato le culture e affermato differenze illusorie, una patologia della storia umana che non si ravvisa soltanto in quello che egli definisce pensiero euro-vetero-centrista, ma anche nei suoi contraltari più giovani dell’americanismo e dell’afrocentrismo. Tutti i tentativi di affermare l’identità pura di una cultura, non soltanto vanno combattuti perché privi di qualunque oggettività, ma anche e soprattutto perché incapaci di rispondere agli interrogativi del fenomeno globale. Nel mondo contemporaneo, dove il transito e l’interlocuzione degli individui raggiungono una complessità mai avuta prima, non è più possibile parlare di cultura utilizzando categorie protoantropologiche, come ad esempio quelle che usò Tylor per rispondere alla domanda “che cos’è la cultura?”. Ancor meno adeguata è l’idea di cultura di Herder, ampiamente diffusasi fino alla metà del secolo scorso e confluita tra gli elementi costitutivi di modelli totalitari.

Talune esagerazioni, dice Appiah, dimostrano che non si è ancora completamente superato il modello della pace di Westfalia, che ha contribuito a fondare l’assetto dello Stato moderno. Mai come nel tempo in cui viviamo la nazione non può identificarsi con lo Stato. La vita delle comunità deve cominciare ad essere progettata nella sfera vitale degli individui e non più soltanto nei palazzi o dai filosofi. Il nazionalismo ha reso cieco l’Occidente moderno di fronte ad uno sviluppo della cultura in chiave ultranazionale. I residui di tale cecità sono ancora presenti in civiltà avanzate come le nostre: la Francia, gli Stati Uniti… La stessa Italia. In Italia per esempio il multilinguismo si riconosce soltanto in parte e in modo improprio. Si dice che l’Italia è un paese bilingue perché oltre all’italiano ci sono i dialetti e intanto si ignorano diverse minoranze linguistiche che esistono nel Bel Paese da tempo, come l’occitano, l’albanese, il somalo, l’arabo e altre ancora. Questi residui di cecità non fanno altro che accrescere la tendenza dei popoli a non riconoscere che di fatto sono già identità multiculturali. Essi accumulano sempre più saperi, ma nello stesso tempo dimenticano molto di ciò che appartiene al loro passato più proprio: la vicenda che ha fatto di ciò che affermano essere (ognuno un determinato popolo) quella comunità che oggi rappresentano.

Lo scrittore e storico francese Joseph-Ernest Renan, nella sua opera Qu'est-ce qu'une nation? rispose alla domanda del titolo dicendo che una nazione è una realtà complessa, fatta di storie, tradizioni, esercizi di potere, atti di resistenza e di mescolanze etniche. In una parola essa è una «realtà empirica». Ma l’errore di Renan fu di aver creduto che sono i valori del passato che le storie contengono a fare una nazione e non il fatto stesso che i suoi attori siano capaci di raccontarle, di rapresentarle attraverso l’arte, la scrittura, la musica, lo sport, oppure il viaggio. Sono questi i canali espressivi del cosmopolitismo culturale, gli stessi che rendono possibile un superamento del concetto moderno di nazione. Renan, quindi, è affetto da cattivo Romanticismo e per questo motivo egli interpreta il concetto di nazione esagerandolo, come hanno fatto l’Idealismo, l’Organicismo, e il Determinismo. Alle esagerazioni della modernità deve essere sostituito un cosmopolitismo culturale la cui universalità si esprime nelle forme condivise della creatività umana. Otto Wagner pensò al Gesamtkunstwerk come ad un’opera d’arte che fosse allo stesso tempo un’essenza unificatrice dell’arte in senso lato. Ma si trattava ugualmente dell’arte concepita come il prodotto di determinati popoli, ossia identità fondate sui valori tradizionali di cui si è detto, e per questo anche il Gesamtkunstwerk, seppure per un margine molto sottile, ricade nella cerchia delle esagerazioni dell’Occidente moderno.

Se possiamo dirci in cammino verso un cosmopolitismo contemporaneo, allora le categorie dell’Occidente moderno non possono più rappresentare la bussola con cui orientare i nostri parametri di giudizio (pensiamo a quando parliamo di Islam radicale, America settentrionale, popoli del terzo mondo che migrano da quadranti depressi ecc.). Essere cittadini del mondo non deve tuttavia significare omologazione della cultura ed ignoranza della diversità, poiché la diversità si identifica qui con l’altro, o meglio con l’umanamente altro, e l’umanamente altro è qualcosa che dobbiamo distinguere dall’estraneo. Il cosmopolitismo di Appiah è in fondo proprio questo: una convivenza dell’altro con l’altro, in un mondo senza estranei. I fondamenti del pensiero occidentale moderno sono quindi ciò che contraddice il cosmopolitismo contemporaneo, sono un controcosmopolitismo. In nessun luogo è una cultura che può dirsi pura e il controcosmopolitismo, dice Appiah, cerca una purezza immaginaria che non c’è.

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Kwame Anthony Appiah (Londra, 1954). Filosofo e antropologo di origine ghanese. Lawrence S. Rockefeller Professor e membro del Center for Human Values presso la Princeton University, si è occupato a fondo della storia del colonialismo, del multiculturalismo e della cultura africana. Tra le sue opere: In My Father’s House. Africa in the Philosophy of Culture (1992); Color Conscious. The Political Morality of Race (1996); The Ethics of Identity (2004); Cosmopolitanism. Ethics in a World of Strangers (2006).