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Copyright © 2006 by Giulio Cesare Cesari

“Ormai molto tempo fa, un matematico si recò a Londra per un anno sabbatico. Una serie di circostanze fortuite (e, col senno di poi, anche fortunate) lo fecero rifuggire dal dipartimento nel quale avrebbe dovuto compiere le sue ricerche, e rifugiare alla British Library: la stessa nella quale anche Karl Marx si era rintanato a scrivere Il capitale.”

Dice Piergiorgio Odifreddi nella prefazione al libro Il computer di Platone, un viaggio nelle origini del pensiero logico e matematico. Cosa potrà mai fare un matematico sullo scanno di Marx? Un'opera rivoluzionaria! Continua infatti Odifreddi:

“Il luogo dev'essere evidentemente propizio, perché anche Luigi Borzacchini vi trovò le condizioni favorevoli per concepire e iniziare un'opera «rivoluzionaria»: invece di continuare ad arrampicarsi sui rami dell'albero della conoscenza, come fanno gli scienziati, il matematico incominciò infatti a scavare per dissotterrarne le radici, come fanno gli archeologi del sapere.”

Ma Borzacchini sapeva di essere seduto sullo scanno di Marx? Direi di sì, dato che lo cita a pag. 27:

“... Ma la nostra lettura antropologica e cognitiva della genesi del pensiero formale è anche dentro la storia dell'umana civilizzazione, e la storia dei segni può apparirne la trama nascosta. Così l'inizio del primo libro del Capitale, in cui Karl Marx descrive il passaggio dal baratto all'equivalente generale, alla moneta, ecc. può essere anche letto come l'irresistibile marcia del “segno” nello scambio economico: dal baratto, totalmente “semantico”, all'oro monetario in cui appare il “segno” del conio, un eroe, un re, un dio. Il valore della moneta è all'inizio ancora nel suo materiale, ma questo diminuisce progressivamente a vantaggio del conio, fino alla banconota, nella quale il valore della materia è quasi nullo, mentre sono i segni su di essa che conferiscono alla banconota il suo valore. E Marx non conosceva la «carta di credito», nell'uso della quale non vi è più alcuna materia scambiata, ma solo una manipolazione sintattica!”

Od almeno così mi piace pensarla, la genesi dell'opera.

Se vi aspettaste, a questo punto, che continuassi con la mia recensione, vi sareste sbagliati, questa non è una recensione. Oh, va bene, tanto per concedere qualcosa metto la foto del libro

Copertina libro

Luigi Borzacchini, Il computer di Platone, un viaggio nelle origini del pensiero logico e matematico, Edizioni Dedalo, pp. 510

E vi cito a pag. 507 ... l'indice dei nomi (sic): “Poiché ricorrono in numerosissime pagine, dall'indice mancano i nomi di Aristotele, Euclide e Platone”

Questo è un libro di Filosofia, dovreste averlo capito. Perché lo scrive un matematico allora? E' la domanda che mi pongo dai tempi dell'esame di maturità: perché i libri di filosofia li scrivono solo i matematici?

In Italia, intendo.

Leggibili.

Da me, almeno.

La risposta esiste ed è: essere.

Mi trattengo dalla tentazione di parlarvi, sfruttando Il Borzacchini, del confronto tra l'uso del verbo essere in greco ed in cinese, perché è mia regola leggerli tre volte libri di questa portata, prima di utilizzarli pienamente; magari vado sui geroglifici, che li conosciam tutti, no? Preferireste che partissi dall'inizio? Ma lo ha già fatto l'autore citato, a cui vi rimando per approfondimenti.

OK, facciamo che parto dal 1931! E che succede nel '31? Succede che esce un testo notevole: L'eliminazione della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio di Rudolf Carnap, attacco senza quartiere all'errore filosofico.

Premetterò subito, a scanso di equivoci, che non sosterrò la tesi forte del libro: tutti i problemi della filosofia derivano da errori di linguaggio, ma una variante indebolita: molti problemi filosofici derivano da errori di linguaggio e se proprio insistete mi ritirerò in un ridotto inespugnabile: alcuni filosofi si sono confusi a causa di problemi di linguaggio. Avendo fatto una quantificazione esistenziale mi basta un unico esempio per dimostrare la tesi.

E qui veniamo ad Heidegger.

O meglio, verremmo ad Heidegger (esempio fatto dallo stesso Carnap) se non cominciassi a divagare, perso nei ricordi del mio esame di maturità.

Correva l'anno... lasciam perdere, diciamo ben addentro il XX secolo ed io “portavo” fisica e filosofia, quali materie d'esame. Il fisicalismo1 radicale di Carnap si sposava proprio bene con il mio approccio, ma c'era una difficoltà: Carnap non era in programma. Stesso problema avevo in fisica: volevo parlare dei V-mos (particolari transistor), ma non erano in programma (e neanche i transistor). C'erano, però, i triodi così esordii: “A differenza dei transistor normali, i V-mos hanno caratteristiche, mutatis mutandis, paragonabili a quelli dei triodi...”. Ed in filosofia? Heidegger era in programma, quindi: “la rilevanza della critica di Carnap ad Heidegger non ha ancora oggi raggiunto la consapevolezza di molti filosofi italiani...” dichiarai al professore di filosofia, uno dei tanti marxisti che occupavano tutti gli spazi della vita civile in quegli anni bui. 😉

Ed oggi? Ha raggiunto la vostra consapevolezza?

Facciamo un test, una domandina semplice semplice: quali sono le accezioni del verbo essere?

Vi do pure un aiuto, una accezione l'ho usata poco fa parlando di quantificazione e dovreste arrivare almeno a sei, per cui mi contento di tre. Pensateci prima di leggere la soluzione in fondo2.

Da quel dì per vari anni, quando sentivo parlare di “certi” filosofi e di “certi” problemi, in special modo Heidegger ed essere, invariabilmente chiedevo: “che mi dici della critica di Carnap?”, “Carnap chi?” era l'invariabile risposta se la domanda era posta in italiano. Ora capite perché gli italiani li leggo solo se sono matematici! Ed in inglese? Eh, Eh, traducetemi l'Essere in inglese. The Being? Niente affatto, vuol dire l'Essente. The to Be? Sgrammaticato, non si può dire. Sarà un caso che la filosofia analitica si è sviluppata in inglese? Carnap però scrive in tedesco e la sua critica all'originale tedesco di Heidegger, nella sua stessa lingua, può svegliare dal “sonno dogmatico” chi comprende il tedesco. Lo stesso Heidegger pare abbia dato ragione a Carnap in tarda età, ma la quistione della convergenza tra Carnap ed Heidegger, impostata recentemente da una studentessa del Liceo Scientifico di Cividale del Friuli, pur avendo avuto la succitata risposta dal suo professore di filosofia, resta per me ancora aperta.

Certo che mi giovo del contributo di menti fresche, il periodo di massima creatività declina già verso i vent'anni, consiglio anche a voi di dare credito a discussioni di filosofia con studenti dei Licei, quello che si perde in preparazione si guadagna in acume.

Dato che la quistione sta arrivando ad essere considerata anche in Italia (libro di recente pubblicazione, studenti dei Licei che leggono e discutono il testo di Carnap) spero di avervi invogliato ad affrontarla e, scusandomi per la frettolosa, momentanea, chiusa, vi saluto dandovi l'appuntamento alla prossima puntata.

Giulio Cesare Cesari

Note:

1 Preminenza delle asserzioni spazio-temporali, una forma di materialismo

2 esistenziale, veridica, copulativa, di appartenenza, di inclusione, di identità, poi varie quali di luogo e di tempo

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Brevissimo resoconto sul giudizio consegnatoci da Heidegger in merito all’opera di Marx. A Marx sono stati attribuiti ogni sorta di appellativi, è stato indagato ogni aspetto della vita privata nel tentativo di trovare elementi che lo connotassero non come il mentore della classe operaia, bensì come un cinico e sprezzante opportunista al pari di tanti borghesi a lui così avversi. Ma tutto questo ci interessa ben poco e non fa che confermare l’idea di fondo che quando non si riesce ad avere la meglio sulle tesi di un avversario ci si inoltra volentieri nel particolare effimero e nel sempre accogliente, e spesso ipocrita, ambito della morale. Sono comunque pochi coloro tra i pensatori, o riconosciuti come tali, che non hanno saputo resistere, in questo secolo, alla tentazione di confrontarsi con il pensiero marxiano.

Esiste però un’autorevole eccezione, e questo brevissimo accenno teoretico, a un possibile confronto fra titani della riflessione, si concentra proprio sullo studioso che invece sembra aver ignorato Marx quasi completamente, liquidandolo con poche battute, e si vedrà come.
L’eccezione ha il nome altisonante di Martin Heidegger, filosofo il cui pensiero ha avuto forse più eco nel ‘900. Il giudizio sull’opera di Heidegger è fra i più controversi. Come Steiner giustamente ricorda, si passa da coloro che lo ritengono “non solo il più eminente filosofo o critico della metafisica da Immanuel Kant in poi, ma che faccia parte di quel ristretto gruppo di autorevoli pensatori occidentali che include Platone, Aristotele, Cartesio, Leibniz ed Hegel.” Altri invece sostengono che “anche una discussione polemica su Heidegger è semplicemente irrilevante: i suoi scritti sono una selva di impenetrabile verbosità; i problemi che pone sono pseudoproblemi; le dottrine che avanza sono, per quanto se ne può capire, o false o grossolane.”1 Indipendentemente da come la si pensi sull’autore di Sein und Zeit, di lui interessa il modo alquanto bizzarro con cui ha liquidato il pensiero di Marx. E’ emblematico come Heidegger schivi i colpi della teoria marxiana semplicemente bollandola come “umanismo”, di fatto non affrontando nessuna delle questioni in essa aperte. Vediamo come nel Brief über den Humanismus: Ma in che cosa consiste l’umanità dell’uomo? Essa riposa nella sua essenza. Ma partendo da dove, e come, si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende che l’“uomo umano” venga conosciuto e riconosciuto. Egli lo trova nella “società”. Per lui l’uomo “sociale” è l’uomo “naturale”. Nella “società” la “natura” dell’uomo, cioè la totalità dei “bisogni naturali” (nutrimento, vestiario, riproduzione, sussistenza economica), è assicurata in modo uniforme.

Più avanti:
Ma se per umanismo si intende in generale la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità, allora l’umanismo è diverso a seconda della concezione della “libertà” e della “natura” dell’uomo. Ugualmente sono 1 G. Steiner, Heidegger, trad. it. (di D. Zazzi), Heidegger, Milano, Garzanti, 2002, pp. 10-11. Diverse anche le vie che portano alla sua realizzazione. L’umanismo di Marx non ha bisogno di alcun ritorno all’antico, e ancor meno l’umanismo che Sartre concepisce come esistenzialismo.

Infine:
Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. E’ metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere. […] Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. (2)

Dunque Heidegger ritiene le tesi di Marx un umanismo del tutto particolare e fra i tanti possibili, un umanismo, come ci spiega, diretto esclusivamente alla cura dell’ente e non dell’essere, quindi irrilevante ai fini di una discussione filosofica. E’ importante notare anche la
relatività con cui sono poste le teorie che potrebbero interessare la cura degli enti. Sarebbero tanti gli umanismi quante sono le concezioni di libertà che gravitano intorno alla natura dell’uomo. Nei fatti è abbandonata ogni concezione del tempo come fattore determinante per la creazione e lo sviluppo di una eticità e di una società conforme alla misura più propria dell’uomo. Il tempo è qui solo visto come un fattore di occultamento delle problematiche intorno all’essere.

Anche lo stesso Steiner, precedentemente citato, si guarda bene dall’inserire Marx tra i grandi pensatori dell’umanità e, al pari di Heidegger, lo rimuove a priori. Non che sia importante stilare una lista, più o meno condivisa, dei giganti della storia del pensiero, ma l’effettiva attenzione a questa lista segnala un modo di pensare che implica un dialogo nel tempo, ma che rimuove il tempo, intorno agli interrogativi fondamentali per e della esistenza umana. La difesa potrebbe insistere sul fatto che gli argomenti toccati da Marx esulano dall’ambito prettamente filosofico, ma ciò appare pretestuoso in quanto Marx non solo ha rivoluzionato la dialettica hegeliana, ma ha affrontato in modo del tutto nuovo e originale questioni quali il metodo empirico di indagine scientifica, ha introdotto modificandola la concezione materialistica della storia, creando così nuove categorie concettuali che prefigurano un sistema in cui si riscontrano, per la prima volta, correlazioni tra la forma di una società e le forze produttive che la esprimono. La colpa di Marx è forse quella di aver pensato l’uomo, concepito universalmente, come un essere forgiato dal tempo. Tanto basta.

(2) M. Heidegger, Wegmarken, trad. it. (di F. Volpi), Segnavia, Milano, Adelphi Edizioni, 1994, pp. 273-275.

“Noi che siamo posti alla fine dei tempi”, predicava di sé e dei suoi contemporanei Ottone di Frisinga. Perché in ogni epoca almeno un profeta ha avvertito il trapassare dei significati e lo ha proclamato al mondo. E se anch’io qui, più modestamente, affermassi che un ciclo storico è finito, essendo venuti meno gli antichi valori europei della religione, della filosofia, della morale, troverei forse il consenso di coloro che mi leggono.

E continuerei ad averlo se aggiungessi che la mancanza di scopi e di valori ultimi caratterizza questo nostro tempo disincantato. La scienza, che ha secolarizzato la vecchia immagine del mondo, spogliandola dell’originario velo mitologico-religioso e riducendola a nuda oggettività, ha prodotto l’inarrestabile disincanto. Risultato sconvolgente di tale razionalizzazione il politeismo e, conseguentemente, l’equipollenza dei valori che hanno portato alla svalutazione di tutti i credo e di tutte le norme, fino a rendere inutili e addirittura stupide prescrizioni e proibizioni. L’uomo di oggi si caratterizza per la perdita del centro, in quanto non s’inchina a nessuna autorità e non presta fede a nessun principio. Non ha un punto archimedico che gli consenta di sollevarsi dalla vanità del tutto. Ne derivano processi di consunzione e svanimento che attaccano ogni risorsa economica, psichica, estetica, religiosa: ateismo, fatalismo, pessimismo, egoismo, indifferenza le nuove tavole della legge che ci consegnano inermi alla drammatica finitudine di un’esistenza priva di trascendenze che le diano un senso. Se i miei lettori sono ancora d’accordo sappiano - ma mi avranno preceduto nella formulazione - che questo è nichilismo. A parte Ottone di Frisinga, infatti, le precedenti affermazioni sono un sintetico e approssimativo collage di riflessioni di alcuni filosofi che si sono confrontati col nichilismo. Nel proporle ho seguito il saggio di Franco Volpi Nichilismo, Laterza 1996. Nichilismo, dal latino nihil, niente, nulla: una filosofia che vede in Nietzsche il suo rivelatore e il suo maieuta, colui che ha fatto prendere coscienza al mondo dell’evento blasfemo: Dio è morto. Frase che scandalosamente riassume quanto detto finora. I nichilisti sono stati presentati al grande pubblico in film, il più delle volte comici, come dinamitardi barbuti, ingenui e insieme irresponsabili - gli anarchici panslavi di Bakunin - i quali parevano non saper bene che fare oltre il tirar bombe contro le carrozze dei sovrani della belle époque. I cultori della letteratura russa conoscono invece gli eroi nichilisti di Turgenev e Dostoevskij, mentre i liceali per i quali lo studio della filosofia è piuttosto un’imposizione che un’esigenza associano forse Nietzsche e nichilismo. Non riflette il grande pubblico che il nostro tempo è nichilista in toto, pur senza aver letto Nietzsche, il quale comunque non era un demonio né un pazzo, anche se pazzo morì. Infatti “chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco della nostra epoca” (Jünger-Heidegger, Oltre la linea, Adelphi 1989). Nietzsche, è vero, ha avuto l’improntitudine di affermare che l’inizio del processo storico che ha portato al venir meno dei valori tradizionali - Dio, la verità, il bene - è in Platone, quando pose la dicotomia tra mondo sensibile e mondo ideale, conciliabile solo nella mente del sapiente, aprendo così il varco alla negazione dei valori. Su questa via perseverò il cristianesimo, che indicò il mondo vero nell’aldilà, e nella penitenza e negazione di questo il modo per raggiungerlo. Kant scrisse poi il terzo capitolo del platonismo-nichilismo argomentando: il mondo soprasensibile è irraggiungibile e indimostrabile, è un imperativo morale. Crolla ogni certezza: solo la ragione pratica postula un Dio. La frana metafisica è iniziata e il positivismo vi s’inoltra: se il mondo vero è irraggiungibile e inconoscibile, cosa ci può vincolare a esso? Ignoriamolo e disinteressiamocene. Lo scetticismo e l’incredulità hanno vinto. E’ il momento di Nietzsche, che trae le inevitabili conclusioni del processo millenario. Constata che il mondo ideale è divenuto inutile e ne prende atto: va abolito, cancellato. Le conseguenze sono devastanti sul piano conoscitivo e pratico: il divenire dell’essere - che è poi il nostro esistere - non ha più un fine, non mira a nulla, non raggiunge nulla; non v’è un principio unificatore che gerarchizzi e organizzi il reale, non esiste la verità. Nietzsche, per aforismi e frammenti, tenta di sfuggire al demone che ha suscitato e delinea la sua via d’uscita dal nichilismo: la volontà di potenza, il superuomo, l’eterno ritorno ne sono le espressioni a volte esoteriche. Ma il problema - lo vive il nostro tempo - è tuttora aperto e il pensiero si macera per intravederne la soluzione. La quale non è soltanto gratuitamente teoretica (ero stato tentato di scrivere accademica, come spesso accade di dispute filosofiche), ma drammaticamente esistenziale. Proporrò soltanto, a conclusione, le sconsolate e terribili riflessioni di Jünger: nel deserto che cresce occorre erigere un baluardo interiore che preservi alcune oasi di libertà - la morte, l’eros, l’amicizia, l’arte: consentiranno all’individuo di resistere all’imperversare del nichilismo. E di Heidegger: occorre sperimentare fino in fondo la potenza del nulla perché giunga ad esaurimento e lo si possa superare. Nell’attesa dell’ “altro inizio” - “ormai soltanto un dio ci può salvare” - il solo punto d’appoggio nel vortice del nichilismo è per il pensiero la capacità di pazientare, l’ “abbandono”. Su questa sorprendente conclusione dell’ultimo Heidegger - paradossale in quanto accanto al nichilismo radicale convive un’incompatibile incrinatura mistica - s’affatica il dibattito contemporaneo, riproponendosi l’insoluta interrogazione gnostica: chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

Adriano Simoncini