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di Fabrizio simoncini

Da un po’ di tempo a questa parte al festival di Berlino gli italiani che vengono premiati non sono film o attori in concorso ma personalità che hanno fatto la storia del cinema italiano (vedi quest’anno il premio alla carriera a Francesco Rosi) o il premio speciale dato l’anno scorso a Gianni Minà per i suoi documentari su Fidel Castro e Che Guevara.

Questo deve far riflettere sui motivi che fanno sì che il cinema italiano possa dichiararsi ufficialmente in crisi. Da tempo quando si va al cinema si resta delusi dalla tipologia dei lungometraggi che il nostro “belpaese” propone. Personaggi stereotipati e situazioni trite conditi in salsa di commedia drammatica.

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di Andrea Manganaro

L’esito delle elezioni politiche dello scorso anno, come si ricorderà, ha avuto dell’incredibile. Complice di questo esito è stata senz’altro la nuova legge elettorale, approvata in fretta e furia negli ultimi mesi della scorsa legislatura dalla vecchia maggioranza, e battezzata “la porcata” da uno dei suoi stessi ideatori.

Alla Camera dei Deputati, dove è prevista l’assegnazione di 340 seggi (su un totale di 630) per la coalizione che ottiene il maggior numero di voti su base nazionale, la coalizione di centrosinistra ha vinto con uno scarto di circa 25mila voti, corrispondenti a circa il 6-7 per mille dei votanti. Al Senato della Repubblica, invece, dove la coalizione di centrodestra ha preso quasi 400mila voti in più,[1] la legge elettorale prevede l’assegnazione del premio di maggioranza su base regionale, in ossequio al dettato costituzionale che prescrive questo tipo di obbligo alla Camera alta. E’ evidente, pertanto, che per godere di un’ampia maggioranza al Senato, ad una coalizione non è sufficiente ottenere la maggioranza, ancorché relativa, dei voti su base nazionale, ma dovrà anche vincere all’interno di quasi tutte le regioni, ciò che risulta piuttosto difficile, se si tiene conto dell’eterogenea caratterizzazione politica del territorio italiano. In caso contrario, infatti, la coalizione vincente non potrà che disporre di una risicata maggioranza.

L’esito elettorale del 2006 è stato incredibile, come si ricorderà, non solo per l’estremo equilibrio di suffragi ottenuti dalle due coalizioni, ma soprattutto perché, secondo quanto previsto da quasi tutti i sondaggi della vigilia e dagli exit-poll comunicati alla chiusura dei seggi, ci si attendeva una vittoria abbastanza netta della coalizione di centrosinistra. Benché la coalizione di centrosinistra abbia tradizionalmente ottenuto meno voti con il sistema elettorale proporzionale, piuttosto che con quello maggioritario, quasi tutti i sondaggi e gli stessi exit polls erano concordi nell’assegnare al centrosinistra circa cinque punti percentuali di vantaggio. Anche i primi voti scrutinati sembravano effettivamente confermare un leggero vantaggio per il centrosinistra, ma man mano che pervenivano i dati dei voti scrutinati dal Viminale, però, lo scarto tra le due coalizioni tendeva ad assottigliarsi fino ad annullarsi del tutto: è successo nella serata di lunedì 10 aprile, dopo la chiusura dei seggi, per i voti scrutinati del Senato, e si è ripetuto nel corso della nottata per i voti della Camera. Tra i dati stimati in modo errato dagli exit poll, in particolare, c’era quello di Forza Italia, sottostimato di circa 4 punti percentuali rispetto al dato effettivo; quanto agli altri partiti, le stime fornite sono ricadute tutte, invece, nelle “forchette” indicate dagli istituiti demoscopici.

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Saggio contro il referendum per il sistema elettorale maggioritario

di Andrea Manganaro

L'Italia, si sa, è un classico esempio di democrazia di tipo consensuale, secondo la celebre classificazione elaborata dal politologo Arend Lijphart, trattandosi di un Paese, al pari di molti altri dell'Europa continentale, caratterizzato da una società culturalmente e politicamente non omogenea.1 In questi Paesi, normalmente il governo maggioritario si rivela non soltanto non adeguato, ma persino pericoloso poiché le minoranze escluse dal governo potrebbero percepirsi discriminate e divenire anti-sistema. Per questo motivo, le democrazie consensuali hanno normalmente almeno alcune delle seguenti caratteristiche: a) governi sostenuti da maggioranze piuttosto ampie, formate da coalizioni comprendenti diverse forze del sistema partitico; b) separazione formale ed informale del potere legislativo da quello esecutivo; c) bicameralismo (più o meno simmetrico); d) sistema partitico caratterizzato da molte forze politiche (multipartitismo) e multidimensionale (cioè caratterizzato da diverse fratture: etniche, di classe, religiose, linguistiche, ecc.); e) sistema elettorale di tipo proporzionale; f) federalismo territoriale e/o marcato decentramento politico; g) costituzione scritta e potere di veto delle minoranze su eventuali modifiche; h) forme di partecipazione democratica diretta (referendum, leggi di iniziativa popolare, ecc.).

Se nei Paesi più piccoli il modello di democrazia consensuale ha storicamente tenuto, quelli più grandi, viceversa, sono stati attraversati da esperienze di tipo autoritario: è il caso, notoriamente, dell'Italia, della Spagna, e della Germania. La democrazia consensuale richiede, infatti, mediazioni e tempi più lunghi, e processi decisionali fortemente formalizzati, a tutela delle minoranze. Questo ha spesso provocato, dunque, forte instabilità politica e maggiore difficoltà nel mantenimento del consenso nei confronti di governi talvolta o spesso costretti all'inazione. In questi Paesi, quindi, è più facile che emergano nelle fasi di crisi forze anti-sistema autoritarie, poco disposte alla mediazione, e pronte a proporre la scorciatoia populista in luogo delle classiche “cinghie di trasmissione” partitiche, normalmente in grado di garantire una democratica partecipazione politica, sebbene oggi queste forme di partecipazione siano in diversi Paesi in crisi da almeno un paio di decenni (in pratica, dall'entrata in crisi del cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano”).

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