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Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Quarta. Emanuele Severino: Le forme del sapere, Carpi, piazza Garibaldi, Domenica 16 Settembre 2007

Inquadriamo generalmente il sapere come sapere scientifico, religioso, filosofico, e quest’ultimo tipo di sapere ci appare sempre come quello più nell’ombra. Ciononostante, nel rapporto tra filosofia e scienza avviene che la prima non soltanto stabilisce le categorie di fondo della seconda, ma anche quelle di tutto l’Occidente. Il complesso insieme di ciò che l’Occidente ha voluto e vorrà, tutto quello che ha fatto e farà è stato fondato dal sapere filosofico. Se non sappiamo il significato della parola Nulla, non comprendiamo neppure il Cristianesimo quando afferma la creazione ex nihilo, e il concetto di Nulla non è un’invenzione del Cristianesimo, bensì della filosofia. Il Rinascimento, l’Illuminismo, il Romanticismo, nessuno di essi sarebbe esistito se non vi fosse stata prima di tutto una struttura filosofica, un sapere filosofico.
Il concetto di sapere stesso si fa oggetto della riflessione filosofica, per scoprire che esso non è tanto sophia, quanto qualcosa che rimanda alle parole sapore e luce. Quando diciamo che il sapere ha a che fare col sapore (da sapio, che è dalla antica radice europea sap), possiamo pensare a qualcosa che si raggiunge con le labbra: così il sapere è come un assaporare. E’quel che emerge da un certo sforzo della glottologia ed è ciò che in prima istanza svela il nostro linguaggio, il quale preserva nella forma più antica del termine sapere la parola labbra. Il sapere dunque come qualcosa che è portato alle labbra, come ciò che ci perviene assaporando.
Tradurre la parola filosofia con “amore del sapere” è un’operazione melensa, fiacca, persino volgare. Anche qui, ancora una volta, le origini del linguaggio ci conducono a relazioni inaspettate, poiché sophia è un’antica sostantivizzazione dell’aggettivo saphes, che ha significato di chiarezza, di luminosità. Scopriamo allora che l’oggetto del sapere è qualcosa che viene portato alle labbra nel preciso istante in cui è rischiarato dalla luce. Azioni come il portare alle labbra e l’osservare una casa illuminata dal sole hanno un’essenzialità comune che ritroviamo nella parola ginomai, che vuol dire ciò che è dovuto (mediante un atto di potenza), e che nei riguardi del significato di sapere si traduce in ciò che è potenziato dalla luce nell’assaporare l’oggetto. Questi dunque i principi alla base della stretta relazione tra la parola sapere ed i concetti di sapore, luce e potenza.
Diogene Laerzio scrive che per Socrate l’unico bene è l’episteme. Per episteme noi intendiamo volgarmente scienza, ma al fondo questo termine vuol dire stare sopra (epi = su + steme = stare). Tutto ciò per il sapere significa possedere il carattere di ciò che si impone nella sua fermezza dall’alto, ovvero quel che illumina e che non si lascia cambiare da nulla di quel che esso illumina. Siamo abituati a misurare la verità, noi diciamo che qualcosa è più o meno vero perché così è per la società, perché siamo individui biopsichici, siamo esseri istituzionali o più semplicemente non abbiamo il coraggio di sostenere e difendere quel che appare soltanto a noi come verità, sopraffatti dal timore di una punizione.
Se volessimo dare uno sguardo all’evoluzione del sapere, di certo il mito figurerebbe come sua prima espressione. Il sapere come mito è prodotto sotto l’influsso di molteplici espressioni del reale: la società, la religione, persino la fisica (l’uomo, per esempio, non può volare e sul desiderio che un giorno possa riuscirci ha elaborato miti su miti). Dopo il mito è giunta la filosofia, quel sapere che nega, che si afferma per la prima volta come negazione del mito. La filosofia è quel tipo di sapere che, a differenza del mito, sa tenersi fermo sull’episteme, mantiene il proprio sguardo su ciò che appare stante. L’episteme, questa episteme che vuole affermare un sapere immutabile, che vorrebbe stare sopra ogni cosa e tutto illuminare, va dunque distinta dalla scienza. Noi oggi potremmo credere al prodigio di una scienza che ci promette un’immortalità infotecnomatematica, ma se la scienza, come ha sempre dimostrato, resta un sapere ipotetico (non stabile), allora le sue stesse promesse continueranno ad avere il carattere del mito e della fede. L’immortalità promessa dalla scienza, come quella del Cristianesimo (dio ci darà l’immortalità), è fuori dalla luce, e così nell’ombra mantiene il suo carattere di incertezza, di ipoteticità. L’essenza della scienza e del Cristianesimo è esattamente il non-stante, cosicché essi non possono percorrere i sentieri dell’episteme nel senso sopra detto. Al contrario di essi l’episteme appare come ciò che sta e che non può essere smentito: questo almeno intendevano gli antichi.
Qualunque astronomia non può essere se non si manifesta, se non appare il cielo, dove l’astronomia rappresenta la scienza e il cielo quel che sta (l’apertura, il dispiegamento del cielo). Ma cos’è lo stante? Esso, paradossalmente, è ciò che nel medesimo istante ci è più prossimo e più indefinitamente lontano. L’episteme, nel suo apparire come ciò che sta, è il nostro primo occhio verso lo stante, ciò che ci indirizza ad esso. Heidegger parla di originale disvelamento, giusto, ma si ferma a questo, senza entrare nel merito di ciò verso cui questo disvelamento (alhJinoV) guarda, ovvero non ci dice nulla di quel che è stante sotto la luce dell’apparire. Echilo diceva che il dolore che rende folli deve essere cacciato dalla mente con verità, in altre parole, bisogna imparare a guardare unicamente a tutte le cose che autenticamente stanno e che non si lasciano smentire, tenendo lontane quelle fugaci e caduche, che gettano l’uomo nella amaJia, ovvero in tutto ciò che non è frutto di una ricerca e che pertanto non ha il carattere dello stante. Quello che si afferma in Eschilo è un concetto articolato di pathos, il quale, oltre a quello di faticoso dolore, esprime un significato di sapere ottenuto mediante scrupolosa ricerca. Si può giungere così ad affermare che noi impariamo soffrendo, con dolore. Questo volto a tratti drammatico della vicenda umana mostra come il sapere sia strettamente connesso al concetto di potenza: per liberarsi dalle vaghezze dell’amaJia è necessario così un atto di potenza che chiami a sé la verità verso cui ci guida l’episteme. Ma tutto questo, sebbene rappresenti un primo passo verso la meta, non è ancora in grado di evocare il significato autentico di ciò che sta. Né la filosofia, la religione o la scienza hanno saputo finora indicarlo pienamente.
La tecnica, che non vuole avere limiti, deve avere la certezza che qualunque limite non può rappresentare un ostacolo reale al suo avanzamento. I limiti che possono apparire sull’orizzonte del cammino della tecnica sono quelli della tradizione, nient’altro che le colonne sedimentate dell’episteme, dell’etica sociale, della religione, della cultura politica dei governi. Tali realtà vorrebbero dire alla tecnica che deve arrestarsi ad un certo punto. Se dio è morto, per lui e dopo di lui restano comunque in campo forze contrapposte che stabiliscono delle gerarchie. La tecnica, dal suo canto, si muove da sempre come se dio non fosse mai esistito.
Il cattolicesimo considera la filosofia degli ultimi secoli semplice relativismo. Ma come è possibile che il sapere filosofico, dopo 2500 anni di attività, si limiti a dire che una verità non esiste, che un eterno che non sia dio non esiste?
Zarathustra afferma di possedere la capacità di creare proprio perché dio non esiste: Zarathustra crea soltanto se dio non è, poiché dove è dio è colui che riempie ogni spazio ed ogni tempo e sottrae agli altri esseri qualunque possibilità di creare. L’affermazione “dio è morto” legittima oltremisura l’essenza della tecnica, la pone più che mai in condizione di sapere che per essa non esistono limiti: l’illimitatezza della tecnica si dipana in un nuovo slancio offertole dal grido della morte di dio.
E’qui che l’uomo giunge ad un bivio: 1) affidarsi ai fondamenti della tradizione che promettono di arginare il dominio della tecnica, oppure 2) lasciare che la tecnica faccia quello che sa fare, cioè incrementare illimitatamente la sua potenza. Sembrerebbe non esserci altra via d’uscita. Ma se solo noi riuscissimo a porci faccia a faccia con lo stante, se ognuno cercasse in se stesso quell’essere al di sopra di dio e di qualunque dio che sia stato mai pensato. Lo stante abita già in noi e non è dio, né la tecnica, né qualunque falsa espressione dell’episteme che può essere smentita. Saremmo come frecce lanciate contro il bersaglio, ma che prima di raggiungerlo tornano a colpire loro stesse. Così facendo esse negano la loro stessa negazione rappresentata dal bersaglio, dicono un no al no per affermare lo stante. Questo è il nostro destino (de-stino, de-stare) la testimonianza del nostro essere da sempre facies ad faciem con la nostra natura più profonda, così nascosta e così potenzialmente disvelata. Non c’è via che possa condurre alla verità, essa non può essere raggiunta poiché abita già in noi. Noi crediamo di essere mortali, caduchi, imperfetti; dio avvertì l’uomo di non mangiare il frutto dell’eternità, dio ebbe paura che la sua creatura divenisse immortale. Ma allora che dio è mai questo? Noi siamo eterni senza alcun dio e al di sopra di qualunque dio. La freccia nega la propria direzione, nega il bersaglio per affermare se stessa.
Emanule Severino (Brescia, 1929), filosofo italiano. Laureatosi con Gustavo Bontadini nel 1950 con una tesi su Heidegger e la metafisica, l’anno successivo è libero docente di Filosofia teoretica. Nel 1962 diviene ordinario di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano e dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Si è occupato a fondo del rapporto tra la Filosofia antica, il Nichilismo moderno e contemporaneo e il progresso della tecnica. Attraverso un’analisi del pensiero greco, in particolare di Parmenide e Platone, passando per Nietzsche ed Heidegger, Severino ha rintracciato nella fede nel divenire i fondamenti del pensiero occidentale. La tecnica è la concretizzazione più potente e verace di tale fede, di fronte alla quale l’uomo è chiamato a ripensare il proprio destino.
Tra le sue opere: Note sul problematicismo italiano (1950); La struttura originaria (1957); Studi di filosofia della prassi (1962); Essenza del nichilismo (1972); Gli abitatori del tempo (1978); Legge e caso (1979); Techne. Le radici della violenza (1979); Destino della necessità (1980); A Cesare e a Dio (1983); La filosofia antica (1985); La filosofia moderna (1985); Il parricidio mancato (1985); La filosofia contemporanea (1988); Il giogo (1989); La filosofia futura (1989); Alle origini della ragione: Eschilo (1989); Antologia filosofica (1989); Il nulla e la poesia. Alla fine dell'età della tecnica: Leopardi (1990); La guerra (1992); Oltre il linguaggio, (1992); Tautotes, (l995); La filosofia dai Greci al nostro tempo (1996); La follia dell'angelo (1997); Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi (1998); Il destino della tecnica (1998); La buona fede (1999); L’anello del ritorno (1999); Crisi della tradizione occidentale (1999); La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell'esistenza (2000); Il mio scontro con la Chiesa (2001); La Gloria (2001); Oltre l’uomo e oltre Dio (2002); Lezioni sulla politica (2002); Tecnica e architettura (2003); Dall'Islam a Prometeo (2003); Fondamento della contraddizione (2005); Nascere, e altri problemi della coscienza religiosa (2005); La natura dell'embrione (2005); Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica (2006); Oltrepassare (2007).

Saggio di ANNA LEANDER e STEFANO GUZZINI, pubblicato nel volume curato da Petri Minkkinen ed Heikki Patomaki, dal titolo The politics of Economic and Monetary Union, Kluwer Academic Publishers, 1997

Un saggio importante del volume è quello al VI capitolo, dedicato alla crisi dei sistemi di welfare provocata dal processo d’integrazione monetaria. Una prima tesi (non acutissima) sostenuta già nell’introduzione è che, da un lato, tale processo ha messo gravemente in crisi i modelli di welfare europei che sono stati alla base della formidabile crescita economica durante la “golden age”, ma d’altro canto – si sostiene – l’Europa costituisce inevitabilmente una parte della soluzione a questa crisi.
Il saggio si divide in tre parti: nella prima, si argomenta come e perché l’assetto istituzionale europeo conseguente al processo d’integrazione monetaria abbia minacciato e minacci ancor oggi i sistemi di welfare europei; nella seconda parte, si analizza la crisi dei tradizionali partiti di massa europei, alle prese col difficile compito di dover adattare alla nuova logica istituzionale i loro vecchi regimi di welfare di tipo corporativo. E poiché buona parte dell’identità dei tradizionali partiti di massa è legata proprio ai modelli di welfare, ecco che la crisi di questi ultimi mette in discussione il consenso di tali partiti, provocando il successo di movimenti di protesta di estrema destra, populisti e nazionalisti. La conseguenza è che le fondamenta stesse del cosiddetto “contratto sociale” alla base del boom economico degli anni ’50 e ’60 sono seriamente minacciate. Nella terza parte, infine, si argomenta che, proprio per la crisi che coinvolge i tradizionali partiti di massa europei, l’Europa imporrà ai governi nazionali maggiore attenzione alla legislazione sociale. Sia pure con difficoltà, si sostiene, infatti, che non sarà possibile per i governi additare l’Europa come “capro espiatorio” dei tagli al welfare, e contemporaneamente ignorare la legislazione sociale europea. Peraltro, si sostiene, le ricette neoliberiste stanno perdendo parecchio del loro appeal, ed in Europa ne hanno avuto sempre poco; i politici, dunque, sarebbero alla ricerca di ricette alternative.
La prima parte inizia dalla seguente considerazione: “l’idea che il mercato unito produca dumping fiscale e sociale è sostanzialmente condivisa, e si basa sulla constatazione che le imprese e le multinazionali sono libere di andare a produrre laddove vi è minore regolazione del lavoro e minore pressione fiscale. Pertanto, se i governi vogliono combattere la disoccupazione, si sostiene, essi dovranno diminuire l’imposizione fiscale, snaturando così la tradizionale funzione redistributiva del sistema fiscale. Anche la libera circolazione delle persone minaccia la logica dei sistemi di welfare tradizionali, dal momento che i cittadini possono trasferirsi a lavorare in altri Paesi con le loro pensioni e assicurazioni sociali, o ritornare nel proprio Paese con le pensioni e le assicurazioni conseguite all’estero. Questo mette in crisi, infatti, il principio keynesiano per cui la spesa sociale debba servire, nei momenti di stagnazione, a far crescere i consumi sul territorio nazionale; anche la libera circolazione in altri Paesi di disoccupati che percepiscono un sussidio a condizione di essere disponibili ad un lavoro nel loro Paese è problematica. Analoghe problematiche ci sono per la competetitività nei servizi (i professionisti possono spostarsi laddove ci sono le condizioni migliori, i malati si possono spostare dove i servizi sanitari costano di meno o hanno una qualità migliore) e nei salari, un pilastro del sistema di welfare nazionale. Tali problematiche, peraltro, sussistono anche a livello statale, tra regioni diverse. A tal proposito, viene qui ricordata una sentenza della Corte di Giustizia Europea per cui nei settori dei trasporti e delle costruzioni le imprese possono riconoscere ai loro salariati stranieri il salario minimo sociale del loro Paese d’origine; tema in seguito ripreso dalla controversa e contestata direttiva cosiddetta “Bolkenstein” della Commissione Europea che sancisce questo principio. In conseguenza di quanto detto, pertanto, i governi nazionali stanno modificando i propri sistemi di welfare, da un lato trasformandoli dal tradizionale tipo universale a sistemi basati sulla prova dei mezzi di sussistenza, e dall’altro fornendo sempre più servizi anziché sussidi: viene citato come esempio quello della Germania, dove sarebbero più sostenuti i medici che i pazienti.
A fronte di questa situazione, le contromisure a livello europeo per tentare di sostenere i sistemi di welfare così minacciati, sono state sempre “striminzite”. L’idea di organizzare una contrattazione collettiva europea, presente sin dai tempi della sottoscrizione dei Trattati di Roma, non ha mai portato a nulla più che il riconoscimento dei consigli di fabbrica nelle imprese più grandi; i fondi strutturali hanno rappresentato l’unica politica sociale europea, oltre a quelle relative al mercato del lavoro. Questi fondi, creati già nel ’58, avevano l’obiettivo di formare o di risistemare singoli lavoratori che avevano perso il proprio lavoro a causa del mercato comune. In seguito, a partire dal ’75, questi fondi furono destinati anche al sostegno delle regioni più depresse della Comunità, svolgendo così un’effettiva funzione redistributiva, ed aiutando, sia pur marginalmente, gli Stati nazionali a sostenere il loro “contratto sociale”. Dopo l’approvazione dell’Atto Unico nell’86, della successiva “Carta dei diritti sociali fondamentali” (con la significativa defezione della Gran Bretagna thathcheriana) nell’89, e del relativo “Programma di azione”, vi era la speranza che una dimensione politica e sociale europea stesse finalmente emergendo. Invece, nelle interpretazioni delle azioni successive intraprese, la “Carta” fu ben presto ristretta ai “diritti sociali fondamentali dei lavoratori”, e tali diritti erano riferiti per lo più a diritti di mobilità: dei 47 punti del programma, solo 28 hanno portato ad una qualche conseguenza legale, la più importante delle quali è stata “l’adozione di un congedo parentale di tre mesi (sic) non retribuito (sic)” (pag.137. In conclusione, “il Trattato di Maastricht ha chiarito una volta per tutte che non ci sarà alcuna Europa sociale che affiancherà il mercato unico e l’unione monetaria”.
In effetti, il Protocollo Sociale e l’accordo relativo, annessi al Trattato, non soltanto non hanno previsto delle tappe così rigorosamente definite come è stato fatto per il processo di integrazione monetaria, ma, anzi, hanno avuto l’effetto di aggravare il livello esistente, suddividendo le varie tipologie di azione con regolamentazioni diverse, cosicché vi sono dei temi per cui le decisioni si possono prendere con voto a maggioranza qualificata, ed altri per cui è invece necessaria l’unanimità; vi sono quindi temi regolamentati sulla base del Trattato di Roma, ed altri invece disciplinato sulla base del Protocollo Sociale, aprendo così la strada a contenziosi legali circa la competenza del provvedimento adottato, anche se tali distinzioni sono state parzialmente superate con il Trattato di Nizza. Questa prima parte del saggio si conclude, quindi, con un breve elenco dei provvedimenti sociali adottati dalla CEE/UE nella sua storia, e con breve paragrafo dedicato al dibattito politico sul Trattato di Maastricht che ha portato alla definizione dei criteri di convergenza, e sul Patto di stabilità.
Nella seconda parte del saggio si analizza, come accennato, alla crisi di legittimazione dei tradizionali partiti di massa a seguito della crisi del sistema di welfare e quindi, in un’ultima analisi, alla crisi del “contratto sociale”. Si parte con la constatazione che il tentativo di contenere la crescita della spesa sociale, se non addirittura di ridurla, da parte di tutti i governi è stato compiuto “con una logica istituzionale decisamente forte ed immutabile” (pag.144). La spesa aggregata per il welfare non ha subito drastiche riduzioni in quasi nessuno dei 15 Paesi della UE nel corso degli anni ’80 e ’90, tranne che nei Paesi Bassi ed in Svezia nel corso degli anni ’90, dove comunque è rimasta tra le più alte d'Europa. Inoltre, se si considera la spesa sociale in percentuale del PIL, va ricordato che in taluni Paesi questo rapporto ha conosciuto delle marcate riduzioni in occasione di cospicui aumenti del denominatore, ovvero in periodi di forte crescita economica: è questo il caso, ad esempio, dell’Irlanda e della Finlandia dal ’94 al 2000 circa.
I sistemi nazionali di welfare godono ancora di vasto sostegno, anche in settori dai costi progressivamente crescenti quali la sanità e le pensioni, e le riforme sono state compiute “a spizzichi e bocconi”, soprattutto a causa delle resistenze incontrate. Eppure, il tema della riduzione del welfare ha dominato il dibattito pubblico. Ciò è accaduto, secondo l’autore, perché la fiducia nel “contratto sociale”, che ha caratterizzato il lungo periodo successivo alla seconda guerra mondiale, è venuta meno. Questi ripetuti tentativi di “snellimento” del welfare da parte di governi nazionali, che l’autore definisce “la politica dei tagli” (“politics of retrenchement”) ha esasperato una crisi di legittimazione nei confronti del contratto sociale, che ha avuto inizio sin dagli anni ’70. Mettere in crisi un contratto sociale che ha garantito decenni di pace e prosperità in Paesi dal passato autoritario non è cosa di poco conto. In difesa del welfare, se non addirittura per una sua estensione, si è sempre registrato, infatti, un vasto consenso sia da parte degli interessi corporativi, sia della maggior parte dell’elettorato. Sarebbe, dunque, proprio questo nuovo contesto politico a creare il terreno fertile per lo sviluppo di nuove forze politiche e di ideologie vecchie e nuove in favore di radicali mutamenti del “contratto”. Tali forze sono state efficacemente definite come sostenitrici della “politica del rancore” (“politics of resentment”), “competono a destra e minacciano il controllo della scena politica da parte dei partiti tradizionali. Sono diventati il tallone d’Achille dei partiti di massa che furono il principale veicolo del consenso interclassista posto a fondamento dei regimi di welfare”. Gli allettanti voti di queste nuove forze sono lontani dal centro, impongono i temi della destra nell’agenda politica, e sono problematici soprattutto per i principali partiti di centro-destra, la cui identità politica “è vincolata alla difesa dei regimi di welfare del dopoguerra” (pag.145).
Questo tipo di regimi, secondo l’autore, sono basati su un implicito “contratto sociale”, come accennato, che li caratterizza per essere sostanzialmente “corporativi”. I sistemi di welfare dei Paesi europei, infatti, prevalentemente non sono caratterizzati né da istituzioni di protezione sociale residuali, come quelli di tipo liberale (come negli USA, ed in parte anche in Gran Bretagna), né sono basati su istituzioni sociali e su diritti sociali universali, come quelli di tipo socialdemocratico (come nei Paesi scandinavi). Sviluppati soprattutto nell’Europa continentale, questi regimi di welfare sono nati inizialmente per contenere la forte spinta dei movimenti operai, basandosi sulle strutture corporative preesistenti ed erano finalizzati fondamentale a coinvolgere i differenti gruppi sociali nel progetto nazionale. In termini organizzativi, il risultato è un sistema di welfare pubblico, con un marginale spazio d’intervento per il settore privato, ma basato soprattutto sulla contribuzione del lavoratore: in pratica, si tratta di una forma pubblica e obbligatoria di assicurazione sociale, e non di un sistema di diritti universalmente riconosciuti, come nel modello socialdemocratico. Altre forme di assistenza vengono erogate soltanto in casi particolari, dopo aver accertato la necessità del singolo, e dopo aver appurato che altre istituzioni (in primo luogo la famiglia) non siano in grado di prendersi cura del bisognoso. Si tratta di un sistema che riflette il principio di sussidiarietà del pensiero della tradizione cristiano-sociale (soprattutto cattolica). Il regime di welfare di tipo corporativo riconosce differenti trattamenti particolaristici, a seconda dello status del gruppo sociale. Il caso estremo è l’Italia, in cui vi sono diversi regimi pensionistici, dettati più che dai bisogni o dalla contribuzione, dalla legislazione clientelistica che viene riconosciuta sufficientemente forte in termini politici o elettorali.
Il contratto sociale consiste dunque in un regime di welfare che accentua le distinzioni tra gruppi sociali, pur permettendo la mobilità sociale, e che ha consentito ai principali partiti popolari democristiani (CDU-CSU nella Repubblica Federale Tedesca, Democrazia Cristiana in Italia, Partido Popular in Spagna, OVP in Austria, partiti cristiano-sociali in Belgio) e dalla coalizione gollista in Francia di governare con coalizioni interclassiste. Si tratta di “un progetto comune, meritocratico abbastanza da concedere delle opportunità ai più, non nazionalista come nei fascismi, ma neanche troppo egualitario, in modo da non danneggiare i gruppi privilegiati. Questo progetto necessariamente crede in soluzioni privatistiche, e legittima la redistribuzione e la sistematica protezione dai possibili effetti negativi del mercato. E’ un sistema che sembra corretto e largamente legittimato, se non addirittura interiorizzato come “normale”. Infatti, gli standard di protezione sociale hanno acquisito un significato simbolico, associato allo sviluppo democratico delle economie di mercato dell’Europa occidentale. Nessun partito corporativo potrebbe nemmeno pensare di proporre un sistema di welfare residuale del tipo statunitense come modello. Questo, semmai, è l’anti-modello. Il contratto è il conseguimento della democrazia del dopoguerra, ed è divenuto, così come il welfare stesso, il simbolo delle progressive conquiste delle “nostre democrazie” (pagg. 146-147). I tentativi di riduzione del welfare sono stati molto forti nella retorica, ma molto limitati in pratica, perché i regimi corporativi sono molto resistenti poiché il sistema (parzialmente) meritocratico basato su schemi assicurativi sembra relativamente corretto ai contribuenti. Inoltre, il cambiamento è reso ancora più difficile laddove particolari vantaggi sono riconosciuti a specifici gruppi occupazionali, che vedrebbero così minacciati i loro interessi. Così, “ogni gruppo difende i propri interessi, credendo di difendere i principi stessi del contratto sociale concluso nei decenni precedenti” (pag.147).
In questo quadro, come si può immaginare, operare dei tagli al welfare è molto difficile anche per governi con ampie maggioranze. Questi, soprattutto se di centro-destra, si trovano così ad essere schiacciati tra “la politica dei tagli” e la “politica del rancore”. Proprio il loro trovarsi in questo dilemma li ha costretti a prestare maggiore attenzione ai temi sociali. I partiti di massa si trovano, dunque, in una posizione di stallo in cui sono impossibilitati sia a difendere i vecchi regimi di welfare, sia a tagliarli. Ogni minaccia a questi sistemi di protezione sociale, quindi, è al tempo stesso una minaccia all’intero sistema politico. E’ in questa situazione di stallo che le nuove iniziative politiche hanno chance di emergere. L’insicurezza fa diffondere il rancore, e talvolta fa costruire nuovi progetti di legittimazione fondati sulle “più vecchie ed infami ideologie”.
La più conosciuta e generalmente meglio studiata reazione ai regimi di welfare è caratterizzata dall’opposizione fiscale mobilitata dall’ondata neoliberista degli anni ’80. Benché questa ondata si sia diffusa anche nell’Europa continentale, essa ha trovato maggior forza e legittimazione soprattutto tra i Paesi anglo-americani. Tuttavia, la retorica neoconservatrice, ancorché molto edulcorata, potrebbe essere adottata anche dai partiti di centro-destra dei principali Paesi con regime di welfare corporativo, che generalmente sono anche tra i più fervidi sostenitori dei progetti d’integrazione europea. I più fervidi sostenitori della nuova ricetta neoliberista (neomonetarista), furono notoriamente Reagan e la Thatcher, promettendo nuove adeguate risposte alla crisi degli anni ’70 derivante dai due shock petroliferi. La ricetta era sintetizzabile con le parole d’ordine “meno Stato, più mercato”, più attenzione alle variabili economiche “dal lato dell’offerta” (supply-side), ossia alle imprese, e “più flessibilità” soprattutto nel mercato del lavoro, ecc. Nessun Paese adottò questa versione “sanguinaria” del neoliberismo, tuttavia in molti Paesi “in cui le vecchie ricette keynesiane non sembravano essere più adeguate, i rimedi liberisti divennero ben presto prevalenti, anche tra i partiti di sinistra” (pag.148). Persino nel più socialdemocratico dei Paesi, la Svezia, nel corso degli anni ’80 la vecchia generazione di economisti è stata sostituita con un nuovo team capeggiato dal liberista ministro delle finanze Kjell-Olof Feldt, e caratterizzato da un approccio verso le tematiche economiche decisamente più “pragmatico”, e molto meno teorico (citazione presa da Korpi Walter, Halkar Sverige Efter?, Carlssons, Stoccolma, 1992). Quanto alla Francia, è nota la repentina svolta di politica economica adottata dai governi socialisti di Mauroy, e di Fabius, durante gli anni della prima presidenza Mitterrand: dopo un'umiliante negoziazione con il governo tedesco ed i tecnici della Bundesbank, i socialisti francesi dovettero abbandonare la politica delle nazionalizzazioni al fine di mantenere la valuta francese dentro lo SME, dopo aver subìto ben tre svalutazioni in meno di due anni.
La retorica neoliberista fu utilizzata, dunque, soprattutto dai partiti di centro-destra nei Paesi anglosassoni all’inizio degli anni ’80, come reazione ai successi dei partiti di centrosinistra degli anni ’60 e ’70 (notoriamente diversa, invece, la situazione nei Paesi mediterranei); ma nei ’90, si sostiene, queste idee avevano già perso fascino, ed anche i governi di centrodestra facevano ormai ricorso a questa retorica con molta prudenza (ad esempio si citano Kohl e Chirac; tuttavia, va detto che questi non sono mai stati dei veri liberisti…). La maggior parte dei governi europei, sia di destra che di sinistra, ha rifiutato la retorica liberista; in effetti, essi sono sempre stati concordi, negli anni ’90, “sulla necessità di riformare il welfare per tenere fede ai principi a fondamento del contratto sociale”. Ma, come si è già visto, era già divenuto assai difficile riuscire a riformare il welfare preservando il contratto sociale sottostante: la minaccia per il primo è diventata quindi la minaccia per il secondo, e, in ultima analisi, per l’intero sistema politico. Questa crisi si è esplicitata con l’emergere di nuove forze politiche di estrema destra, populiste, nazionaliste e xenofobe che, volendo difendere il sistema di welfare, propongono “politiche di esclusione”. E’ il caso, soprattutto, del “Front National” francese, della Lega Nord italiana (ma in parte anche di “Forza Italia” e di “Alleanza Nazionale”), e dei Republikaner tedeschi, ma anche dei liberali austriaci capeggiati da Haider, del Vlaams Block in Belgio, e della “Lista Pym Fortuyn” nei Paesi Bassi. Il successo di tali forze ha così posto sotto assedio il vasto consenso interclassista dei principali partiti tradizionali, dipinti come un indifferenziato aggregato di potere (“Die etablierten Parteien” in Germania, “La Bande à Quatre” in Francia, i “cattocomunisti”, oppure “Roma ladrona” in Italia, ecc.). La rappresentazione alla base di questo successo è quella secondo cui la “fetta di torta” spettante ad ogni cittadino si sta rimpicciolendo sempre di più e, pertanto, per fermare questo fenomeno, è necessario che “alcuni cittadini vengano esclusi dal tavolo della cena” (pag.149). Questa rappresentazione è congiunta ad una forte retorica del cambiamento, come sempre succede alle forze più lontane dal centro politico, ma, nonostante ciò, in realtà tali forze perseguono soprattutto la difesa dello status quo ante, ossia dei privilegi che gli Stati corporativi concordano per certe categorie, ma che oggi è minacciato, si dice, dagli ultimi arrivati. Questi sono normalmente, ça va sans dire, gli immigrati extracomunitari. Si tratta, insomma, della promessa del “ritorno al paradiso perduto”.
Nel caso francese, gli stranieri dovrebbero essere esclusi dai servizi di welfare, secondo il Front National, non solo perché non sono francesi, ma anche perché costoro non condividerebbero “l’etica del lavoro” ed “i valori della tradizione francese”. Se in Germania i Republikaner hanno intaccato solo minimamente il consenso della CDU/CSU (principale partito di centro-destra tedesco), probabilmente anche a causa dell’imbarazzante passato del Paese cui essi si rifanno, viceversa in Italia, come noto, queste nuove forze politiche hanno sbaragliato il tradizionale blocco di consenso consociativo, a seguito delle note vicende giudiziarie passate alla storia sotto l’etichetta di “Tangentopoli”. Di queste forze, “Forza Italia” sarebbe “un vero partito liberista”, sostenitore di “une autre politique” di stampo thatcheriano, contro l’ortodossia europea, anche se nel corso degli ultimi anni l'aggravarsi della crisi economica italiana, e la sua vicinanza con le piccole e medie imprese, ha progressivamente trasformato Forza Italia in una formazione sempre più protezionista. Viceversa, Alleanza Nazionale è definito come “un partito post-fascista che ancora non accetta il consenso repubblicano, democratico, antifascista su cui la democrazia italiana è stata costruita” (pag.150; citazione tratta da Piero Ignazi, “La culture des racines: la culture politique du mouvement social italien au seuil du gouvernement”, in Revue française de science politique, n.44, 1994, pp.1014-33). Quanto alla Lega Nord, invece, con la sua proposta di federalismo fiscale vorrebbe dividere il sistema di welfare nazionale tra Nord e Sud, “rompendo l’implicito contratto della classe media del Nord con quella del Sud”, migliorando così le prestazioni del sistema di welfare nel Nord (citazione tratta da Massimo Paci, “Classi sociali e società post-industriale in Italia”, in Stato e Mercato, Il Mulino, n.32, 1991, pagg.199-217). In questo modo, la logica corporativa resta immutata, solo “la crisi fiscale e finanziaria sarebbe temporaneamente risolta – nel Nord” (p.150). Pertanto, anche il movimento leghista sarebbe da ascrivere alla lunga tradizione trasformistica italiana: la “prima Repubblica” doveva cambiare per permettere alle strutture ed ai servizi fondamentali di restare immutati. Come ha efficacemente descritto Ilvo Diamanti, l’argomento neoliberista diventa così “una sorta di corporativismo neoliberista autoprotettivo” (da Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma, Donzelli, 1993).
La terza parte del saggio, infine, è quella propositiva, ma è anche quella più improbabile: si sostiene, come si è visto, che proprio le minacce ai sistemi di welfare corporativi indotte dai processi d’integrazione europea, imporrà all’agenda politica europea la necessità di introdurre dei provvedimenti sociali in grado di controbilanciare tali minacce, pena la messa in mora dei sistemi politici dell’Europa continentale, consolidati dal dopoguerra. Tali provvedimenti dovrebbero prevedere il trasferimento progressivo di competenze di welfare a livello europeo, anche se oggi ciò appare ancora molto lontano dall’agenda politica europea. Nonostante ciò, si sostiene, la fine degli anni ’90 sarebbe molto diversa dall’inizio degli ’80: due decenni di ricette sedicenti neoliberiste hanno fallito, e diverse alternative politico-economiche sarebbero allo studio e costituirebbero l’oggetto del dibattito odierno. Nel frattempo, le pressioni esercitate dai processi d’integrazione europei avrebbero esercitato una pressione tale sugli Stati, che la stessa UE avrebbe preso consapevolezza di queste problematiche. Infine, i tagli ai sistemi di welfare, riferiti finora soltanto ad aspetti marginali, adesso starebbero cominciando ad intaccare pezzi molto più sostanziali di tali sistemi. A distanza ormai di oltre dieci anni da quando è stato scritto questo saggio, appare disarmante, infatti, l'impasse in cui si trova l'Unione Europea, nel frattempo allargata fino a 27 Stati membri.

di Andrea Manganaro

In occasione delle prossime elezioni politiche, la scelta per l'elettore è quanto mai complessa per diversi motivi: in primo luogo, la rapidità ed imprevedibilità della crisi politica che ha portato allo scioglimento anticipato delle camere; in secondo luogo, l'improvviso fiorire di nuove formazioni politiche e di nuove coalizioni; in terzo luogo, la complessità della (pessima) legge elettorale con cui si andrà a votare che, peraltro, non consente all'elettore nemmeno di scegliere il candidato preferito all'interno della lista prescelta. L'obiettivo di questo breve saggio è quello di valutare tecnicamente quale debba essere il voto ottimale per un ipotetico elettore incerto sulla scelta da fare, ma avverso alla coalizione di centro-destra composta da “Popolo delle Libertà” (PDL), “Lega Nord” ed il Movimento autonomista (MPA). Il ragionamento va distinto per le due camere poiché, come noto, alla Camera dei Deputati il premio di maggioranza è assegnato su base nazionale, mentre al Senato è assegnato su base regionale, rendendo così ancora più incerto l'esito finale.

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