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RECENSIONE DEL VOLUME DI SERGIO FERRARI E ROBERTO ROMANO

Europa e Italia, Divergenze economiche, politiche e sociali.

Introduzione di Guglielmo Epifani, saggio conclusivo di Luciano Gallino, Milano, Franco Angeli, 2004

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ANDREA MANGANARO

Questo breve saggio curato dall’Ufficio Studi della CGIL Lombardia ha il pregio di associare una rigorosa analisi della crisi dell’economia reale italiana ad uno stile sobrio, comprensibile anche da chi non ha conoscenze economiche molto approfondite. Dissociandosi nettamente dal coro degli economisti ortodossi (compresi quelli che, ahimè, hanno ispirato e continuano ad ispirare le scelte di politica economica dell’Ulivo), che continuano ad attribuire la lunga fase di stagnazione italiana alla crisi internazionale, al costo del lavoro e del welfare ed all’insufficienza delle liberalizzazioni (il più delle volte declinato nel senso di “privatizzazioni”), il testo analizza, invece, la debolezza del tessuto industriale italiano.

Nel primo capitolo (“Il luogo di osservazione”) si annuncia la tesi di fondo: nell’adozione delle azioni macroeconomiche sulla domanda si deve tenere conto dei contenuti tecnologici e qualitativi dei fattori di produzione. I beni di investimento ed intermedi ad alta tecnologia, infatti, hanno uno sviluppo che è più del doppio dei beni finali di consumo tradizionale, su cui è cristallizzata l’Italia; i quali sono esportati, come compensazione, nei Paesi in cui si sviluppa l’innovazione ed i redditi da lavoro sono molto più alti. L’intervento pubblico keynesiano, dunque, deve essere subordinato ad un’analisi delle caratteristiche (della crisi) del sistema produttivo nazionale. Pertanto, il taglio generalizzato del costo del lavoro, ad esempio, è inutile in Italia, dove i prodotti ad alta tecnologia sono per lo più importati. E’ necessario, pertanto, investire di più in capitali immateriali per integrare nuove tecnologie a monte delle filiere produttive, così come avviene, ad esempio, in Svezia, Finlandia o nei Paesi Bassi, dove il 28% dei brevetti depositati riguardano l’alta tecnologia, contro il 13% in Italia. La situazione è anche peggiorata, peraltro, dalla “finanziarizzazione dell’economia”, che privilegia gli investimenti finanziari rispetto a quelli produttivi.

Nel secondo capitolo (“Divergenza macroeconomica tra l’Itala e l’Europa”), si entra nel dettaglio dell’analisi. La capacità dell’offerta del sistema produttivo italiano è assolutamente inadeguata a competere con quella europea: si può apprezzare questo valutando i dati sul commercio estero; c’è un out-gap strutturale pari allo 0,5% del PIL, e l’allineamento ai parametri degli altri Paesi si verifica soltanto nelle fasi di stagnazione in Europa, benché dal 2001 il livello degli investimenti italiani sia analogo a quello europeo (circa il 17,5% del PIL). Ciò avviene per almeno tre motivi: a) perché si tratta per lo più di investimenti finanziari oppure in innovazioni di processo che riducono la disoccupazione, ma non producono crescita (motivazione condivisa a sinistra); ma alla sinistra sfugge che b) il precedente punto non è negativo in assoluto, ma lo è perché si tratta di investimenti in settori produttivi di beni finali “maggiormente aperti ad una concorrenza internazionale basata sul costo dei fattori e con minori barriere tecnologiche” (pag.25); e lo è perché c) ciò provoca un indebolimento nei comparti dei prodotti intermedi e di investimento. Questo spiegherebbe anche la correlazione positiva tra investimenti e importazioni, la contestuale diminuzione delle esportazioni e l’aumento dei prezzi alla produzione.

La maggiore crescita italiana rispetto alla media UE negli anni 1995 e 2001 sono stati determinati, rispettivamente, dalla svalutazione della lira e dell’euro, ma la politica monetaria resta un’arma spuntata senza un adeguamento della qualità dell’offerta; viceversa, l’out-gap finisce col compromettere, alla lunga, anche la sostenibilità dell’imponente debito italiano. Tale divergenza ha avuto ripercussioni anche sulla distribuzione del reddito: la quota dei redditi da lavoro dipendente sul PIL è passata dal 50,6% al 40,6% dal 1972 al 2000, mentre è rimasta stabile negli altri Paesi europei (da 50,7% a 52,4% in Francia, da 54,6% a 53,4% in Germania, da 50,3% a 50,6% in Spagna, da 58,8 a 55,8% in Gran Bretagna); questo si riflette in una crescita molto più bassa dei salari reali (dal 1993 al 2000 crescono l’1,5% in Italia, contro il 4,4% di media UE) e, addirittura, in una loro diminuzione dal 1995 in poi. L’unico punto che non convince su questa analisi sta nel fatto che gli autori non attribuiscono colpe specifiche al processo d’integrazione monetaria europea, ed in particolare ai paletti posti al bilancio pubblico dal Trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità, di cui non viene messa in discussione l’efficacia, e che gli autori si limitano a considerare “insufficienti” rispetto alle aspettative suscitate. In realtà, la necessità di perseguire il risanamento finanziario in pochi anni ha costretto i Paesi europei, e l’Italia in particolare (per il suo elevato debito pubblico), ad adottare politiche economiche restrittive che hanno contribuito alla penalizzazione della crescita economica.

Nel terzo capitolo si affronta “l’insufficienza dell’offerta nazionale”: si osserva che gli indici di correlazione dell’industria manifatturiera (esclusi prodotti petroliferi) tra Paesi europei indicano per l’Italia una correlazione più alta con Spagna (0,86) e Portogallo (0,59), che non con Francia e Germania (0,57 e 0,52 rispettivamente), mentre tra i due Paesi più grandi, che hanno quote di mercato più elevate nei settori ad alta intensità tecnologica (strumenti di precisione, chimica e farmaceutica, tecnologie dell’informazione e della comunicazione), l’indice è pari a 0,94. Dal 1990 al 2002, infatti, la produzione dei beni di consumo cresce nell’UE il 7,3% contro il 13,4% in Italia; per contro, la produzione dei beni intermedi cresce del 23,1% in UE contro il 13,4% in Italia, e quella dei beni capitali cresce del 25% in UE contro il 18,1% dell’Italia. La quota dell’alta tecnologia sul manifatturiero nelle esportazioni è rimasta in Italia al 14,5% nell’ultimo decennio, mentre è salita in Francia dal 27,6 % al 31,6%, ed in Germana dal 22,6% al 24,5%. La quota del valore aggiunto dei settori manifatturieri ad alta tecnologia è pari al 15,3%, contro il 23,2% della media UE; i brevetti nell’alta tecnologia sono 28 per 1000 abitanti, contro i 97,2 in UE; le spese in Ricerca e Sviluppo delle imprese private sul PIL sono diminuite negli ultimi anni del 5,8%, contro una crescita nell’UE del 5,4%. Pertanto “il Paese è condannato ad una crescita tanto più modesta quanto più si allarga e consolida il mercato dei beni capitali.” (pag.43). Su ciò incide moltissimo l’anomalia del capitalismo italiano caratterizzato da piccole imprese: quelle con meno di 10 addetti sono il 95% del totale, ed i loro occupati sono il 47% del totale (il doppio della media europea: 21% in Germania, 22% in Francia, 27% in Gran Bretagna); quelle grandi (oltre 500 addetti) hanno perso il 15% dell’occupazione in vent’anni, mentre in quelle medie gli occupati sono soltanto il 10% del totale (contro il 15% in Germania ed il 16% in Francia). Il problema dimensionale è grave non soltanto per l’allocazione degli investimenti, ma anche per il minore utilizzo di economie di scala e per la riduzione delle scorte che impone la necessità di maggiori infrastrutture fisiche (in un Paese ad alta densità abitativa), scaricando così il magazzino sulla collettività. Inoltre, “l’incidenza dei profitti sul valore aggiunto, gli investimenti ed il valore aggiunto per addetto sono inversamente proporzionali alla dimensione dell’impresa” (pag.45).

Nel quarto capitolo (“Specializzazione produttiva e nuove tendenze dell’inflazione in Italia negli anni ‘90”), c’è una sintetica ricostruzione della storia economica italiana dagli anni ’70 in poi. Dopo lo shock politico-economico degli anni ‘92-’93, la svalutazione della lira, ed il conseguente miglioramento della bilancia commerciale italiana, l’attenzione si concentra sul fatto che dal ’96 (anno di rientro della lira nello SME, anticamera della moneta unica) inizia una lenta erosione del saldo commerciale, riguardante il settore manifatturiero, ed in particolare i prodotti ad alta tecnologia (che peraltro hanno sempre avuto saldi negativi anche negli “anni felici” della lira fluttuante). E’ stridente la contrapposizione tra la “miracolosa” convergenza dell’economia monetaria italiana verso l’UME, e la crescente divergenza dell’economia reale italiana dal resto d’Europa. Seguono considerazioni sull’andamento dell’inflazione nel periodo 1993-2001: la differenza tra quella italiana e quella europea (sempre minore di un punto percentuale dal ’96 in poi, uguale nel 2001) è attribuibile per lo più alla crescita dei prezzi alla produzione. Ma il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) è cresciuto di soli tre punti tra il ’96 e lo ’01, a fronte di una crescita dei prezzi al consumo del 9%, e comunque sempre meno della media europea. Dunque l’aumento è da imputarsi al costo dei beni capitali, e comunque non ad un aumento del livello della domanda aggregata. Infatti, “l’uso di uno stesso processo produttivo in un Paese che importa le macchine necessarie implica non già lo stanziamento di quella quantità di lavoro che serve a produrre il bene capitale, bensì lo stanziamento di quella quantità di lavoro necessaria a produrre le merci con la cui vendita si effettua lo scambio sul mercato estero”. (pag.72) Questo implica, ovviamente, un maggior rapporto capitale/prodotto per un Paese importatore di beni capitali. Tale rapporto era in Italia tra i più bassi in Europa negli anni ’70, ma dal ’95 è il più alto in Europa, provocando così un crescente “svantaggio tecnologico comparato”. L’inflazione italiana, pertanto, si configura come “inflazione da costi di tipo strutturale” (pag.75). Pertanto, “sotto questo profilo deve essere richiamata l’attenzione sulla possibilità e la necessità di individuare politiche di tipo keynesiano che coniughino il livello della domanda con la qualità tecnologica della stessa. In questo contesto, il perseguimento di politiche tradizionali antinflazionistiche, ed in genere tutte quelle linee di azione ispirate da inflation targeting sarebbe non solo inefficace, ma anche controproducente. La presenza di un’inefficienza strutturale determinata dalla specializzazione tecnologica e la spinta inflazionistica da essa conseguente potrebbe essere eventualmente inasprita dalla scarsità di risorse destinate all’investimento in conseguenza degli effetti restrittivi della stessa” (pagg.75-76).

Il cap.5 (“Le politiche per lo sviluppo e la crescita sociale”) è meno analitico e più propositivo. Si sottolinea che l’ingresso nella moneta unica ha ridotto il differenziale inflattivo tra Italia e resto dell’UE, ma l’impossibilità di ricorrere alle “svalutazioni competitive” ha provocato nel 2002 una riduzione delle esportazioni del 13%, che da sola spiega la minor crescita italiana. Si sottolinea anche che le liberalizzazioni e le privatizzazioni da tutti indicate come soluzione per migliorare la competitività dell’economia reale non abbiano dato alcun risultato soddisfacente. Lo stesso residuo scarto inflattivo tra Italia ed UE, come detto, è attribuibile ai maggiori costi dei beni capitali. Il programma economico del centrosinistra, però, non sembra aver colto queste considerazioni, poiché si continuano a postulare ancora ulteriori liberalizzazioni come soluzione, analogamente al programma del vecchio Ulivo (pag.82). “Meraviglia, in particolare, l’assenza del tema e dell’obiettivo dell’occupazione” (nota 41, pag.91). Inoltre, il continuo richiamo generico alla necessità di aumentare spese e contributi in Ricerca e Sviluppo (R&S) non sembra tener conto delle dimensioni delle aziende italiane e della loro specializzazione produttiva. La stessa ipotesi di non considerare gli investimenti in R&S e infrastrutture nella valutazione del rapporto deficit/PIL, previsto dal Patto di stabilità, di cui giustamente si parla in Europa, finirebbe per aggravare, però, il divario tra Italia e gli altri Paesi. La debolezza del sistema industriale italiano, infatti, provoca una quota di investimenti provenienti dall’estero molto inferiore alla media europea e, viceversa, il paradosso che il risparmio degli italiani (a causa anche dell’eventuale trasferimento dei TFR verso i Fondi) va a finanziare gli investimenti delle imprese estere. Il cambiamento e lo sviluppo, pertanto, non potranno essere provocati dal libero mercato, né da qualche contributo o agevolazione; essi richiedono un cambiamento culturale d’impresa strutturale che può essere guidato soltanto dal pubblico. Rispetto alla stagnazione degli anni ’30 o al dopoguerra, la situazione è aggravata dal fatto che oggi il sistema industriale privato non è in grado di esprimere scelte di sviluppo, né di invocare l’intervento del pubblico. L’attribuzione della politica industriale al solo sistema privato, concordata dallo stesso sistema con vari Governi, ha palesemente fallito. Né l’Italia si trova nella situazione di poter offrire salari e dumping ambientale da Paese in via di sviluppo. Nemmeno la Banca d’Italia sembra aver colto ciò: le analisi non sono soddisfacenti, si confondono spesso l’arretratezza tecnologica del sistema economico (causa) e la pochezza del livello culturale degli addetti, del numero dei laureati e dei ricercatori d’impresa (effetto). L’allocazione ottimale delle risorse, pertanto, deve riguardare anche il livello e la qualità dell’occupazione, lo stato sociale, le infrastrutture e l’ambiente; infatti “non c’è nessuna politica industriale che permette di ragionare sul come si produce la ricchezza se non c’è una politica che parla di come distribuirla. L’inscindibilità dei due termini è quello che la rende credibile, non c’è un’idea di sviluppo della società e con essa della democrazia” (pag.92). Di qui la necessità di investire su un sistema di ricerca pubblica e sulla scuola, tenendo conto che si tratta di un cambiamento profondo, che necessita di tempi lunghi, i cui risultati non saranno apprezzabili che nel medio periodo. Appaiono dannose, invece, le politiche di apertura al mercato dei servizi sociali, volte da un lato alla riduzione della spesa pubblica, e dall’altro alla creazione di mercati interni di compensazione della ridotta competitività internazionale (pag.90). Il passaggio, però, non appare proprio così immediato: potrà essere condivisibile sul piano politico, ma non su quello economico. Se, infatti, si ritiene che una nuova fase di sviluppo passi attraverso una conversione del sistema industriale verso la produzione di beni intermedi e capitali ad alta tecnologia, allora ci sarà bisogno di grandi concentrazioni industriali e dell’intervento del pubblico (dello Stato), e ciò richiede anche grandi concentrazioni di capitali; non si capisce, dunque, la necessità di garantire un’equa distribuzione della ricchezza che, invece, sostiene soprattutto la domanda di beni di consumo di finale. E’ vero, però, che se il cambiamento necessita tempi medi o lunghi, la tenuta economica e sociale del sistema a breve dovrà essere garantita da un distribuzione della ricchezza e non da riduzioni fiscali (v. pag.94). Si individuano, quindi, quattro nuclei produttivi che potrebbero sostenere questa transizione: il comparto elettromedicale, le macchine ed i prodotti per il recupero dei rifiuti e dei materiali di scarto, il settore agroalimentare, ed il settore energetico ed ambientale. Si rileva, per contro, da un lato la scarsa efficacia delle politiche europee, le cui risorse, oltretutto, saranno diminuite dall’allargamento dell’UE ai Paesi dell’Est; e, d’altro canto, il fallimento di quel complesso di interventi locali adottato negli anni passati (patti d’area, territoriali, ecc.). Si propone, a tal proposito, agevolazioni per le imprese che assumono personale altamente specializzato. Infine, si propone di investire in questo progetto le istituzioni pubbliche (a partire dai ministeri e dalle regioni), che dovrebbero essere dotate di strutture di ricerca e di conoscenza scientifica e tecnologica.

Il testo si chiude con un breve saggio di Luciano Gallino, ricco di dati statistici, sul sistema dell’istruzione italiano, sulla scelta dei settori produttivi, sulle strutture istituzionali e politica industriale, e sulla distribuzione del reddito. In conclusione vi sono cinque interventi proposti, ritenuti necessari: a) aumentare di almeno tre anni l’offerta professionale delle forze di lavoro tra i 15 ed i 34 anni che non siano in possesso di un titolo di studio superiore alla licenza media; b) incentivare la formazione e l’occupazione dei laureati in materie scientifiche agendo sia nei confronti degli atenei, sia nei confronti delle imprese; c) riformare la struttura dei ministeri al fine di concentrare le competenze ed i poteri per disegnare, promuovere ed attuare una nuova politica industriale; d) tale politica industriale dovrebbe essere volta a innovare ed estendere i rapporti tra la grande industria italiana e quella europea; e) riaprire con determinazione la questione della distribuzione del reddito e delle retribuzioni da lavoro dipendente. Come si può intuire, si tratta di proposte sempre più attuali ed urgenti, benché siano state formulate ormai tre anni fa.

Saggio di ANNA LEANDER e STEFANO GUZZINI, pubblicato nel volume curato da Petri Minkkinen ed Heikki Patomaki, dal titolo The politics of Economic and Monetary Union, Kluwer Academic Publishers, 1997

Un saggio importante del volume è quello al VI capitolo, dedicato alla crisi dei sistemi di welfare provocata dal processo d’integrazione monetaria. Una prima tesi (non acutissima) sostenuta già nell’introduzione è che, da un lato, tale processo ha messo gravemente in crisi i modelli di welfare europei che sono stati alla base della formidabile crescita economica durante la “golden age”, ma d’altro canto – si sostiene – l’Europa costituisce inevitabilmente una parte della soluzione a questa crisi.
Il saggio si divide in tre parti: nella prima, si argomenta come e perché l’assetto istituzionale europeo conseguente al processo d’integrazione monetaria abbia minacciato e minacci ancor oggi i sistemi di welfare europei; nella seconda parte, si analizza la crisi dei tradizionali partiti di massa europei, alle prese col difficile compito di dover adattare alla nuova logica istituzionale i loro vecchi regimi di welfare di tipo corporativo. E poiché buona parte dell’identità dei tradizionali partiti di massa è legata proprio ai modelli di welfare, ecco che la crisi di questi ultimi mette in discussione il consenso di tali partiti, provocando il successo di movimenti di protesta di estrema destra, populisti e nazionalisti. La conseguenza è che le fondamenta stesse del cosiddetto “contratto sociale” alla base del boom economico degli anni ’50 e ’60 sono seriamente minacciate. Nella terza parte, infine, si argomenta che, proprio per la crisi che coinvolge i tradizionali partiti di massa europei, l’Europa imporrà ai governi nazionali maggiore attenzione alla legislazione sociale. Sia pure con difficoltà, si sostiene, infatti, che non sarà possibile per i governi additare l’Europa come “capro espiatorio” dei tagli al welfare, e contemporaneamente ignorare la legislazione sociale europea. Peraltro, si sostiene, le ricette neoliberiste stanno perdendo parecchio del loro appeal, ed in Europa ne hanno avuto sempre poco; i politici, dunque, sarebbero alla ricerca di ricette alternative.
La prima parte inizia dalla seguente considerazione: “l’idea che il mercato unito produca dumping fiscale e sociale è sostanzialmente condivisa, e si basa sulla constatazione che le imprese e le multinazionali sono libere di andare a produrre laddove vi è minore regolazione del lavoro e minore pressione fiscale. Pertanto, se i governi vogliono combattere la disoccupazione, si sostiene, essi dovranno diminuire l’imposizione fiscale, snaturando così la tradizionale funzione redistributiva del sistema fiscale. Anche la libera circolazione delle persone minaccia la logica dei sistemi di welfare tradizionali, dal momento che i cittadini possono trasferirsi a lavorare in altri Paesi con le loro pensioni e assicurazioni sociali, o ritornare nel proprio Paese con le pensioni e le assicurazioni conseguite all’estero. Questo mette in crisi, infatti, il principio keynesiano per cui la spesa sociale debba servire, nei momenti di stagnazione, a far crescere i consumi sul territorio nazionale; anche la libera circolazione in altri Paesi di disoccupati che percepiscono un sussidio a condizione di essere disponibili ad un lavoro nel loro Paese è problematica. Analoghe problematiche ci sono per la competetitività nei servizi (i professionisti possono spostarsi laddove ci sono le condizioni migliori, i malati si possono spostare dove i servizi sanitari costano di meno o hanno una qualità migliore) e nei salari, un pilastro del sistema di welfare nazionale. Tali problematiche, peraltro, sussistono anche a livello statale, tra regioni diverse. A tal proposito, viene qui ricordata una sentenza della Corte di Giustizia Europea per cui nei settori dei trasporti e delle costruzioni le imprese possono riconoscere ai loro salariati stranieri il salario minimo sociale del loro Paese d’origine; tema in seguito ripreso dalla controversa e contestata direttiva cosiddetta “Bolkenstein” della Commissione Europea che sancisce questo principio. In conseguenza di quanto detto, pertanto, i governi nazionali stanno modificando i propri sistemi di welfare, da un lato trasformandoli dal tradizionale tipo universale a sistemi basati sulla prova dei mezzi di sussistenza, e dall’altro fornendo sempre più servizi anziché sussidi: viene citato come esempio quello della Germania, dove sarebbero più sostenuti i medici che i pazienti.
A fronte di questa situazione, le contromisure a livello europeo per tentare di sostenere i sistemi di welfare così minacciati, sono state sempre “striminzite”. L’idea di organizzare una contrattazione collettiva europea, presente sin dai tempi della sottoscrizione dei Trattati di Roma, non ha mai portato a nulla più che il riconoscimento dei consigli di fabbrica nelle imprese più grandi; i fondi strutturali hanno rappresentato l’unica politica sociale europea, oltre a quelle relative al mercato del lavoro. Questi fondi, creati già nel ’58, avevano l’obiettivo di formare o di risistemare singoli lavoratori che avevano perso il proprio lavoro a causa del mercato comune. In seguito, a partire dal ’75, questi fondi furono destinati anche al sostegno delle regioni più depresse della Comunità, svolgendo così un’effettiva funzione redistributiva, ed aiutando, sia pur marginalmente, gli Stati nazionali a sostenere il loro “contratto sociale”. Dopo l’approvazione dell’Atto Unico nell’86, della successiva “Carta dei diritti sociali fondamentali” (con la significativa defezione della Gran Bretagna thathcheriana) nell’89, e del relativo “Programma di azione”, vi era la speranza che una dimensione politica e sociale europea stesse finalmente emergendo. Invece, nelle interpretazioni delle azioni successive intraprese, la “Carta” fu ben presto ristretta ai “diritti sociali fondamentali dei lavoratori”, e tali diritti erano riferiti per lo più a diritti di mobilità: dei 47 punti del programma, solo 28 hanno portato ad una qualche conseguenza legale, la più importante delle quali è stata “l’adozione di un congedo parentale di tre mesi (sic) non retribuito (sic)” (pag.137. In conclusione, “il Trattato di Maastricht ha chiarito una volta per tutte che non ci sarà alcuna Europa sociale che affiancherà il mercato unico e l’unione monetaria”.
In effetti, il Protocollo Sociale e l’accordo relativo, annessi al Trattato, non soltanto non hanno previsto delle tappe così rigorosamente definite come è stato fatto per il processo di integrazione monetaria, ma, anzi, hanno avuto l’effetto di aggravare il livello esistente, suddividendo le varie tipologie di azione con regolamentazioni diverse, cosicché vi sono dei temi per cui le decisioni si possono prendere con voto a maggioranza qualificata, ed altri per cui è invece necessaria l’unanimità; vi sono quindi temi regolamentati sulla base del Trattato di Roma, ed altri invece disciplinato sulla base del Protocollo Sociale, aprendo così la strada a contenziosi legali circa la competenza del provvedimento adottato, anche se tali distinzioni sono state parzialmente superate con il Trattato di Nizza. Questa prima parte del saggio si conclude, quindi, con un breve elenco dei provvedimenti sociali adottati dalla CEE/UE nella sua storia, e con breve paragrafo dedicato al dibattito politico sul Trattato di Maastricht che ha portato alla definizione dei criteri di convergenza, e sul Patto di stabilità.
Nella seconda parte del saggio si analizza, come accennato, alla crisi di legittimazione dei tradizionali partiti di massa a seguito della crisi del sistema di welfare e quindi, in un’ultima analisi, alla crisi del “contratto sociale”. Si parte con la constatazione che il tentativo di contenere la crescita della spesa sociale, se non addirittura di ridurla, da parte di tutti i governi è stato compiuto “con una logica istituzionale decisamente forte ed immutabile” (pag.144). La spesa aggregata per il welfare non ha subito drastiche riduzioni in quasi nessuno dei 15 Paesi della UE nel corso degli anni ’80 e ’90, tranne che nei Paesi Bassi ed in Svezia nel corso degli anni ’90, dove comunque è rimasta tra le più alte d'Europa. Inoltre, se si considera la spesa sociale in percentuale del PIL, va ricordato che in taluni Paesi questo rapporto ha conosciuto delle marcate riduzioni in occasione di cospicui aumenti del denominatore, ovvero in periodi di forte crescita economica: è questo il caso, ad esempio, dell’Irlanda e della Finlandia dal ’94 al 2000 circa.
I sistemi nazionali di welfare godono ancora di vasto sostegno, anche in settori dai costi progressivamente crescenti quali la sanità e le pensioni, e le riforme sono state compiute “a spizzichi e bocconi”, soprattutto a causa delle resistenze incontrate. Eppure, il tema della riduzione del welfare ha dominato il dibattito pubblico. Ciò è accaduto, secondo l’autore, perché la fiducia nel “contratto sociale”, che ha caratterizzato il lungo periodo successivo alla seconda guerra mondiale, è venuta meno. Questi ripetuti tentativi di “snellimento” del welfare da parte di governi nazionali, che l’autore definisce “la politica dei tagli” (“politics of retrenchement”) ha esasperato una crisi di legittimazione nei confronti del contratto sociale, che ha avuto inizio sin dagli anni ’70. Mettere in crisi un contratto sociale che ha garantito decenni di pace e prosperità in Paesi dal passato autoritario non è cosa di poco conto. In difesa del welfare, se non addirittura per una sua estensione, si è sempre registrato, infatti, un vasto consenso sia da parte degli interessi corporativi, sia della maggior parte dell’elettorato. Sarebbe, dunque, proprio questo nuovo contesto politico a creare il terreno fertile per lo sviluppo di nuove forze politiche e di ideologie vecchie e nuove in favore di radicali mutamenti del “contratto”. Tali forze sono state efficacemente definite come sostenitrici della “politica del rancore” (“politics of resentment”), “competono a destra e minacciano il controllo della scena politica da parte dei partiti tradizionali. Sono diventati il tallone d’Achille dei partiti di massa che furono il principale veicolo del consenso interclassista posto a fondamento dei regimi di welfare”. Gli allettanti voti di queste nuove forze sono lontani dal centro, impongono i temi della destra nell’agenda politica, e sono problematici soprattutto per i principali partiti di centro-destra, la cui identità politica “è vincolata alla difesa dei regimi di welfare del dopoguerra” (pag.145).
Questo tipo di regimi, secondo l’autore, sono basati su un implicito “contratto sociale”, come accennato, che li caratterizza per essere sostanzialmente “corporativi”. I sistemi di welfare dei Paesi europei, infatti, prevalentemente non sono caratterizzati né da istituzioni di protezione sociale residuali, come quelli di tipo liberale (come negli USA, ed in parte anche in Gran Bretagna), né sono basati su istituzioni sociali e su diritti sociali universali, come quelli di tipo socialdemocratico (come nei Paesi scandinavi). Sviluppati soprattutto nell’Europa continentale, questi regimi di welfare sono nati inizialmente per contenere la forte spinta dei movimenti operai, basandosi sulle strutture corporative preesistenti ed erano finalizzati fondamentale a coinvolgere i differenti gruppi sociali nel progetto nazionale. In termini organizzativi, il risultato è un sistema di welfare pubblico, con un marginale spazio d’intervento per il settore privato, ma basato soprattutto sulla contribuzione del lavoratore: in pratica, si tratta di una forma pubblica e obbligatoria di assicurazione sociale, e non di un sistema di diritti universalmente riconosciuti, come nel modello socialdemocratico. Altre forme di assistenza vengono erogate soltanto in casi particolari, dopo aver accertato la necessità del singolo, e dopo aver appurato che altre istituzioni (in primo luogo la famiglia) non siano in grado di prendersi cura del bisognoso. Si tratta di un sistema che riflette il principio di sussidiarietà del pensiero della tradizione cristiano-sociale (soprattutto cattolica). Il regime di welfare di tipo corporativo riconosce differenti trattamenti particolaristici, a seconda dello status del gruppo sociale. Il caso estremo è l’Italia, in cui vi sono diversi regimi pensionistici, dettati più che dai bisogni o dalla contribuzione, dalla legislazione clientelistica che viene riconosciuta sufficientemente forte in termini politici o elettorali.
Il contratto sociale consiste dunque in un regime di welfare che accentua le distinzioni tra gruppi sociali, pur permettendo la mobilità sociale, e che ha consentito ai principali partiti popolari democristiani (CDU-CSU nella Repubblica Federale Tedesca, Democrazia Cristiana in Italia, Partido Popular in Spagna, OVP in Austria, partiti cristiano-sociali in Belgio) e dalla coalizione gollista in Francia di governare con coalizioni interclassiste. Si tratta di “un progetto comune, meritocratico abbastanza da concedere delle opportunità ai più, non nazionalista come nei fascismi, ma neanche troppo egualitario, in modo da non danneggiare i gruppi privilegiati. Questo progetto necessariamente crede in soluzioni privatistiche, e legittima la redistribuzione e la sistematica protezione dai possibili effetti negativi del mercato. E’ un sistema che sembra corretto e largamente legittimato, se non addirittura interiorizzato come “normale”. Infatti, gli standard di protezione sociale hanno acquisito un significato simbolico, associato allo sviluppo democratico delle economie di mercato dell’Europa occidentale. Nessun partito corporativo potrebbe nemmeno pensare di proporre un sistema di welfare residuale del tipo statunitense come modello. Questo, semmai, è l’anti-modello. Il contratto è il conseguimento della democrazia del dopoguerra, ed è divenuto, così come il welfare stesso, il simbolo delle progressive conquiste delle “nostre democrazie” (pagg. 146-147). I tentativi di riduzione del welfare sono stati molto forti nella retorica, ma molto limitati in pratica, perché i regimi corporativi sono molto resistenti poiché il sistema (parzialmente) meritocratico basato su schemi assicurativi sembra relativamente corretto ai contribuenti. Inoltre, il cambiamento è reso ancora più difficile laddove particolari vantaggi sono riconosciuti a specifici gruppi occupazionali, che vedrebbero così minacciati i loro interessi. Così, “ogni gruppo difende i propri interessi, credendo di difendere i principi stessi del contratto sociale concluso nei decenni precedenti” (pag.147).
In questo quadro, come si può immaginare, operare dei tagli al welfare è molto difficile anche per governi con ampie maggioranze. Questi, soprattutto se di centro-destra, si trovano così ad essere schiacciati tra “la politica dei tagli” e la “politica del rancore”. Proprio il loro trovarsi in questo dilemma li ha costretti a prestare maggiore attenzione ai temi sociali. I partiti di massa si trovano, dunque, in una posizione di stallo in cui sono impossibilitati sia a difendere i vecchi regimi di welfare, sia a tagliarli. Ogni minaccia a questi sistemi di protezione sociale, quindi, è al tempo stesso una minaccia all’intero sistema politico. E’ in questa situazione di stallo che le nuove iniziative politiche hanno chance di emergere. L’insicurezza fa diffondere il rancore, e talvolta fa costruire nuovi progetti di legittimazione fondati sulle “più vecchie ed infami ideologie”.
La più conosciuta e generalmente meglio studiata reazione ai regimi di welfare è caratterizzata dall’opposizione fiscale mobilitata dall’ondata neoliberista degli anni ’80. Benché questa ondata si sia diffusa anche nell’Europa continentale, essa ha trovato maggior forza e legittimazione soprattutto tra i Paesi anglo-americani. Tuttavia, la retorica neoconservatrice, ancorché molto edulcorata, potrebbe essere adottata anche dai partiti di centro-destra dei principali Paesi con regime di welfare corporativo, che generalmente sono anche tra i più fervidi sostenitori dei progetti d’integrazione europea. I più fervidi sostenitori della nuova ricetta neoliberista (neomonetarista), furono notoriamente Reagan e la Thatcher, promettendo nuove adeguate risposte alla crisi degli anni ’70 derivante dai due shock petroliferi. La ricetta era sintetizzabile con le parole d’ordine “meno Stato, più mercato”, più attenzione alle variabili economiche “dal lato dell’offerta” (supply-side), ossia alle imprese, e “più flessibilità” soprattutto nel mercato del lavoro, ecc. Nessun Paese adottò questa versione “sanguinaria” del neoliberismo, tuttavia in molti Paesi “in cui le vecchie ricette keynesiane non sembravano essere più adeguate, i rimedi liberisti divennero ben presto prevalenti, anche tra i partiti di sinistra” (pag.148). Persino nel più socialdemocratico dei Paesi, la Svezia, nel corso degli anni ’80 la vecchia generazione di economisti è stata sostituita con un nuovo team capeggiato dal liberista ministro delle finanze Kjell-Olof Feldt, e caratterizzato da un approccio verso le tematiche economiche decisamente più “pragmatico”, e molto meno teorico (citazione presa da Korpi Walter, Halkar Sverige Efter?, Carlssons, Stoccolma, 1992). Quanto alla Francia, è nota la repentina svolta di politica economica adottata dai governi socialisti di Mauroy, e di Fabius, durante gli anni della prima presidenza Mitterrand: dopo un'umiliante negoziazione con il governo tedesco ed i tecnici della Bundesbank, i socialisti francesi dovettero abbandonare la politica delle nazionalizzazioni al fine di mantenere la valuta francese dentro lo SME, dopo aver subìto ben tre svalutazioni in meno di due anni.
La retorica neoliberista fu utilizzata, dunque, soprattutto dai partiti di centro-destra nei Paesi anglosassoni all’inizio degli anni ’80, come reazione ai successi dei partiti di centrosinistra degli anni ’60 e ’70 (notoriamente diversa, invece, la situazione nei Paesi mediterranei); ma nei ’90, si sostiene, queste idee avevano già perso fascino, ed anche i governi di centrodestra facevano ormai ricorso a questa retorica con molta prudenza (ad esempio si citano Kohl e Chirac; tuttavia, va detto che questi non sono mai stati dei veri liberisti…). La maggior parte dei governi europei, sia di destra che di sinistra, ha rifiutato la retorica liberista; in effetti, essi sono sempre stati concordi, negli anni ’90, “sulla necessità di riformare il welfare per tenere fede ai principi a fondamento del contratto sociale”. Ma, come si è già visto, era già divenuto assai difficile riuscire a riformare il welfare preservando il contratto sociale sottostante: la minaccia per il primo è diventata quindi la minaccia per il secondo, e, in ultima analisi, per l’intero sistema politico. Questa crisi si è esplicitata con l’emergere di nuove forze politiche di estrema destra, populiste, nazionaliste e xenofobe che, volendo difendere il sistema di welfare, propongono “politiche di esclusione”. E’ il caso, soprattutto, del “Front National” francese, della Lega Nord italiana (ma in parte anche di “Forza Italia” e di “Alleanza Nazionale”), e dei Republikaner tedeschi, ma anche dei liberali austriaci capeggiati da Haider, del Vlaams Block in Belgio, e della “Lista Pym Fortuyn” nei Paesi Bassi. Il successo di tali forze ha così posto sotto assedio il vasto consenso interclassista dei principali partiti tradizionali, dipinti come un indifferenziato aggregato di potere (“Die etablierten Parteien” in Germania, “La Bande à Quatre” in Francia, i “cattocomunisti”, oppure “Roma ladrona” in Italia, ecc.). La rappresentazione alla base di questo successo è quella secondo cui la “fetta di torta” spettante ad ogni cittadino si sta rimpicciolendo sempre di più e, pertanto, per fermare questo fenomeno, è necessario che “alcuni cittadini vengano esclusi dal tavolo della cena” (pag.149). Questa rappresentazione è congiunta ad una forte retorica del cambiamento, come sempre succede alle forze più lontane dal centro politico, ma, nonostante ciò, in realtà tali forze perseguono soprattutto la difesa dello status quo ante, ossia dei privilegi che gli Stati corporativi concordano per certe categorie, ma che oggi è minacciato, si dice, dagli ultimi arrivati. Questi sono normalmente, ça va sans dire, gli immigrati extracomunitari. Si tratta, insomma, della promessa del “ritorno al paradiso perduto”.
Nel caso francese, gli stranieri dovrebbero essere esclusi dai servizi di welfare, secondo il Front National, non solo perché non sono francesi, ma anche perché costoro non condividerebbero “l’etica del lavoro” ed “i valori della tradizione francese”. Se in Germania i Republikaner hanno intaccato solo minimamente il consenso della CDU/CSU (principale partito di centro-destra tedesco), probabilmente anche a causa dell’imbarazzante passato del Paese cui essi si rifanno, viceversa in Italia, come noto, queste nuove forze politiche hanno sbaragliato il tradizionale blocco di consenso consociativo, a seguito delle note vicende giudiziarie passate alla storia sotto l’etichetta di “Tangentopoli”. Di queste forze, “Forza Italia” sarebbe “un vero partito liberista”, sostenitore di “une autre politique” di stampo thatcheriano, contro l’ortodossia europea, anche se nel corso degli ultimi anni l'aggravarsi della crisi economica italiana, e la sua vicinanza con le piccole e medie imprese, ha progressivamente trasformato Forza Italia in una formazione sempre più protezionista. Viceversa, Alleanza Nazionale è definito come “un partito post-fascista che ancora non accetta il consenso repubblicano, democratico, antifascista su cui la democrazia italiana è stata costruita” (pag.150; citazione tratta da Piero Ignazi, “La culture des racines: la culture politique du mouvement social italien au seuil du gouvernement”, in Revue française de science politique, n.44, 1994, pp.1014-33). Quanto alla Lega Nord, invece, con la sua proposta di federalismo fiscale vorrebbe dividere il sistema di welfare nazionale tra Nord e Sud, “rompendo l’implicito contratto della classe media del Nord con quella del Sud”, migliorando così le prestazioni del sistema di welfare nel Nord (citazione tratta da Massimo Paci, “Classi sociali e società post-industriale in Italia”, in Stato e Mercato, Il Mulino, n.32, 1991, pagg.199-217). In questo modo, la logica corporativa resta immutata, solo “la crisi fiscale e finanziaria sarebbe temporaneamente risolta – nel Nord” (p.150). Pertanto, anche il movimento leghista sarebbe da ascrivere alla lunga tradizione trasformistica italiana: la “prima Repubblica” doveva cambiare per permettere alle strutture ed ai servizi fondamentali di restare immutati. Come ha efficacemente descritto Ilvo Diamanti, l’argomento neoliberista diventa così “una sorta di corporativismo neoliberista autoprotettivo” (da Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma, Donzelli, 1993).
La terza parte del saggio, infine, è quella propositiva, ma è anche quella più improbabile: si sostiene, come si è visto, che proprio le minacce ai sistemi di welfare corporativi indotte dai processi d’integrazione europea, imporrà all’agenda politica europea la necessità di introdurre dei provvedimenti sociali in grado di controbilanciare tali minacce, pena la messa in mora dei sistemi politici dell’Europa continentale, consolidati dal dopoguerra. Tali provvedimenti dovrebbero prevedere il trasferimento progressivo di competenze di welfare a livello europeo, anche se oggi ciò appare ancora molto lontano dall’agenda politica europea. Nonostante ciò, si sostiene, la fine degli anni ’90 sarebbe molto diversa dall’inizio degli ’80: due decenni di ricette sedicenti neoliberiste hanno fallito, e diverse alternative politico-economiche sarebbero allo studio e costituirebbero l’oggetto del dibattito odierno. Nel frattempo, le pressioni esercitate dai processi d’integrazione europei avrebbero esercitato una pressione tale sugli Stati, che la stessa UE avrebbe preso consapevolezza di queste problematiche. Infine, i tagli ai sistemi di welfare, riferiti finora soltanto ad aspetti marginali, adesso starebbero cominciando ad intaccare pezzi molto più sostanziali di tali sistemi. A distanza ormai di oltre dieci anni da quando è stato scritto questo saggio, appare disarmante, infatti, l'impasse in cui si trova l'Unione Europea, nel frattempo allargata fino a 27 Stati membri.

Un anno sull’Altipiano è un libro incredibilmente bello. Chi ha interesse a conoscere l’assurda tragedia della grande guerra non può permettersi di non leggere il romanzo di Emilio Lussu. Per amare la pace non c’è bisogno di particolari esperienze cristiane o no-global, è sufficiente leggere gli autori giusti che hanno vissuto sulla propria pelle e poi raccontato quell’evento, o meglio quell’orrore, che è la guerra. Terminata la lettura di questo capolavoro letterario si resta turbati dagli avvenimenti che vi sono narrati, storie semplici ma che sconvolgono grazie a una scrittura leggera che avvolge l’intera opera di una luce malinconica.

Nonostante le abbia vissute in prima persona, Lussu non lascia mai trasparire alcun giudizio morale di approvazione o condanna, sono i fatti a parlare con la loro crudele e assurda verità. Quattro lunghi anni vissuti dall’autore in prima linea sul fronte carsico e successivamente sull’altipiano di Asiago. Anni drammatici passati continuamente in trincea a pochi metri dal nemico e a stretto contatto con la morte, sempre pronti a lanciare, sotto la guida di comandanti inetti e grotteschi, inutili e sanguinosi assalti. Nel libro viene narrato un solo anno di guerra che va dal giugno 1916 al luglio 1917.

Lussu racconta le vicende della Brigata Sassari a cui lo stesso autore apparteneva. Eppure questo non si può definire come un libro esclusivamente di guerra. Vi è raccontato l’uomo che in una situazione limite, come la guerra di trincea, mostra tutti i lati negativi e i suoi contrari, portati all’ennesima potenza, da una quasi stupida crudeltà a mirabili slanci di generosità e altruismo. Il tutto sotto la scure di un destino che appare, pagina dopo pagina, non glorioso ma ogni volta sempre più ingiusto, perché procurato da militari imbelli e politici opportunisti (per citarne solo due, D’Annunzio e Mussolini). Numerose sono le immagini che si fissano nella mente del lettore. Personalmente mi ha sconvolto quella relativa a un attacco nemico. Lussu racconta che durante un assalto, prima di focalizzare la vista dei singoli soldati, si percepiva già il puzzo di cognac che gli austriaci emanavano e che ammorbava l’aria tutt’intorno. E questa può essere la metafora emblematica della prima grande guerra: il cognac. Liquore che veniva versato in grandi quantità ai fanti italiani e austriaci tutte le volte che si doveva andare all’assalto all’arma bianca e che nella gran parte dei casi significava il viatico a miglior vita. Metafora dunque si diceva: per fare la guerra bisogna essere ubriachi… Dello stesso tenore è Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues). Nel libro di Erich Maria Remarque si narrano le vicende relative al fronte franco-tedesco. Come scrive l’autore, il suo libro non vuole essere un atto di denuncia ma solo “il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra”. Scritto anch’esso con tratti di mirabile poesia, Remarque incarna l’uomo che, uscito indenne fisicamente dalla guerra, fino al 1927 non riesce a scrivere una riga perché ancora schiantato dagli orrori che non abbandoneranno mai la sua mente. Con l’avvento del nazismo in Germania nel 1933, il libro di Remarque viene pubblicamente bruciato come esempio di scrittura degenerata.

Prologo di ciò che accadrà nel 1938 quando allo stesso autore i nazisti toglieranno la cittadinanza tedesca. Nel libro di Remarque l’uomo si riconosce sempre come tale, mai viene trasfigurato in un eroe che si fonde con l’acciaio della modernità e si immortala nell’azione di guerra esteticamente bella, rischiosa e fine a se stessa, come accadrà nel libro di Junger. Ne è una prova il racconto dell’episodio in cui l’autore si ritrova sperduto tra le linee nemiche in una enorme buca di granata con i francesi che corrono all’assalto sopra di lui. Appena sente un tonfo e il rotolare di un corpo egli si avventa come una belva sul malcapitato affondando i colpi con la baionetta secondo la ferrea regola della guerra o lui o io. Il francese non muore subito ma comincia a rantolare e lo farà per tutta la notte e il giorno seguente con Remarque che rischia di impazzire nella buca insieme e di fronte al lento disvelarsi del nemico in un essere umano. Alla fine non resisterà all’idea di scoprire l’identità di quell’uomo e assieme all’identificazione attraverso un nome e un cognome troverà lettere, foto e l’assurda insensatezza di quel mattatoio. Questo è forse il momento più alto, quasi lirico, di un romanzo che quando uscì sconvolse l’Europa e che ancora oggi lascia al lettore il sapore amaro di quella tragedia che diede inizio al secolo breve di Hobsbawniana memoria. Tutt’altro destino nella Germania hitleriana ebbe il libro di Ernst Junger Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern).

Come viene scritto nell’introduzione, il suo comportamento in prima linea lo rese leggendario. Venne ferito ben quattordici volte e ricevette i più alti riconoscimenti. Esponente della destra reazionaria weimariana, Junger tentò di conciliare nei suoi numerosi e successivi scritti la politica della destra, tradizionalmente antimodernista, con la progressiva, inarrestabile ed estraniante espansione della tecnica. Nelle tempeste d’acciaio è un libro che non si può definire militarista, ma che certamente esalta la guerra di trincea come virtù purificatrice e glorificatrice di una vita profondamente comunitaria, quasi tribale. La vita dell’uomo in guerra è per Junger sempre spettacolare e si risolve in ogni azione, sia essa anche sanguinosa, come puro atto estetico. Sembra quasi incredibile osservare come la tradizione conservatrice tedesca, che vedeva nell'affermazione della tecnica un nemico da contrastare tanto quanto il propagarsi delle idee comuniste, trovi invece in Junger un ribaltamento teorico. La tecnica si fonde in unico corpo fatto di volontà e violenza, "la poesia dell'acciaio" come l'autore la definisce. Il mondo borghese è per Junger ormai corrotto, atomistico, generatore di sentimenti individualistici e troppo vincolato alla prassi dettata esclusivamente dalla ragione che allontana e distrugge quella dimensione romantica e quello spirito guerriero che la tradizione germanica da secoli immutabilmente incarnava. Solo con la tecnica la bellezza pare allo scrittore tedesco riconciliarsi con il mondo grazie alla sua fascinosa precisione e alla "meravigliosa" potenza distruttiva e salvifica che da essa si dipana. Per questo ho voluto associare a due libri per così dire pacifisti, che prendono in odio la guerra, un libro – quello di Junger – che invece trae dall’esperienza bellica una filosofia di vita e di organizzazione sociale profondamente antitetica e decisamente reazionaria. Solo così sarà più chiaro al lettore comprendere i meccanismi psicologici e l’evolversi delle tensioni sociali e culturali che portarono sia in Italia che in Germania all’affermazione di quei fenomeni politici che vanno sotto il nome di “fascismi”.

Fabrizio Simoncini