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Sin dalle origini del genere, gli scrittori di fantascienza hanno provato a immaginare il futuro delle città. Nell’antologia “Le città del domani” (Fanucci editore, 15 euro), Peter Crowther ripropone questo tema presentando quattro romanzi brevi di Paul Di Filippo, China Miéville, Michael Moorcock e Geoff Ryman.

Nel racconto di China Miéville – senza dubbio l’esponente oggi più interessante della fantascienza inglese – troviamo una Londra devastata dalla guerra: ovunque, da Victoria Street a Westminster, da Russel Square a King’s Cross, non rimangono che cumuli di macerie e rovine. C’è qualcosa di autenticamente agghiacciante in questo racconto del 2002, se solo si considera che negli stessi luoghi indicati da Miéville hanno colpito i kamikaze negli attentanti della scorsa estate. Ma non si tratta di un caso di preveggenza: questa Londra immaginaria dalla topografia impazzita, i cui confini e ogni altro riferimento spaziale sono stati cancellati dalle deflagrazione degli ordigni esplosivi, rappresenta in realtà la più vasta città globale quotidianamente martoriata dalla guerra.

E si badi, sulla scia del miglior filone catastrofico della fantascienza inglese, la distruzione degli uomini e delle cose non è solo materiale, ma segna tanto più profondamente lo stesso paesaggio psichico dell’umanità. Ma oltre alle suggestioni ballardiane, Miéville riprende l’idea di Lewis Carroll che possa esistere un altro mondo al di là degli specchi: la guerra infatti è stata scatenata dagli Immago, creature che vivono in una dimensione parallela alla nostra, nascosta dietro la superficie riflettente degli specchi. Sono l’immagine di noi stessi, i nostri doppi costretti a vivere sotto forma di riflessi di luce che si ribellano rivendicando il diritto di vivere una propria esistenza. In realtà, sotto la patina rassicurante della scrittura di genere, Mieville riesce a disseminare nel testo tutta una ridda di profondi riferimenti psicoanalitici. Michael Moorcock racconta gli effetti di “un’oscillazione spazio-temporale” che ha fatto finire “il mondo sottosopra”. La distorsione in realtà si è estesa a tutti gli universi paralleli e i protagonisti del racconto – Jerry Cornelius, il Principe Lobkowitz e Taffy Sinclair - cercano una via di fuga per ritornare alla realtà zero. Ma così come appare impossibile ristabilire l’ordine ontologico delle cose, i personaggi si ritrovano prigionieri di una realtà impazzita in cui passato e presente, vecchie e nuove guerre si mescolano continuamente, a simboleggiare la catastrofe geopolitica e sistemica della civiltà occidentale. Sullo sfondo di una città globale frammentata su vari livelli spazio-tempo, compaiono imprecisati scenari di guerra: Londra, Gerusalemme, Washington, Singapore, le montagne dell’Afghanistan e il deserto dell’Iraq. Ewell, il personaggio che appare prima sotto le spoglie di un mercenario, poi di un generale golpista e infine del Presidente degli Stati Uniti, dice: “È come la guerra dei cento anni dalla quale venne fuori una Germania più forte. Il conflitto servì a preparare la strada per Bismarck. E laddove a loro ci sono volute intere generazioni, a noi basterà una settimana”. Nel racconto convivono elementi anacronistici provenienti da epoche differenti, come biciclette di fine ottocento e pick up ultramoderni, parrucche settecentesche e bramini indù. La scrittura si nutre infatti di materiali provenienti dalle più disparate fonti mediatiche (articoli di giornale, citazioni neocon, pubblicità di armi, frammenti di notiziari televisivi, canzoni pop, etc.): se da una parte tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera sperimentalista un po’ datata, dall’altra riesce nell’isolare con precisione i reperti della catastrofe psichica riproducendone l’effetto shock planetario. La città raccontata da Paul Di Filippo si estende in linea retta, una lunga striscia urbana compresa tra le rotaie della ferrovia e il corso d’acqua di un fiume. In realtà, è talmente estesa da includere una miriade di blocchi, quartieri talmente grandi da somigliare più a vere e proprie nazioni, con ciascuno una propria lingua, usanze e costumi differenti.

Di Filippo va comunque oltre la metafora della megalopoli globale, riuscendo a permeare l’atmosfera del racconto di una intensa angoscia metafisica ed esistenziale. “Esiste il blocco zero?” – si chiedono in continuazione alcuni dei protagonisti – “E quanto si estende la città? Cosa c’è oltre il confine del blocco zero”. Gli Ornitauri e le Ittiodomine, creature alate dalla forma umana e dai muscoli granitici, compaiano nel cielo ogni volta che muore un uomo e accompagnano le anime dei defunti nell’altro mondo: rappresentano in realtà “i simboli di tutto ciò che giace al di là dell’umana comprensione”. Si scopre allora che la città è un vero e proprio organismo vivente e sotto il manto della superficie urbana si dipana un fitto reticolo di tunnel sotterranei ricoperti di materiale organico. Molto più ironico, infine, il taglio scelto da Geoff Ryman. Il protagonista del suo racconto è infatti un vecchio hacker costretto ancora ai furti elettronici per poter pagarsi la retta dell’ospizio hightech. L’ambientazione si svolge infatti a Los Angeles, in una particolarissima happy farm dove i pazienti sono sorvegliati da un sofisticato sistema di controllo elettronico: “Sanno persino i tasti che digitiamo al computer” - dice uno degli anziani - “Esatto, dannazione. Non posso neanche scaricare del porno”. Per ironia della sorta, il vecchio hacker si ritrova così controllato da quegli stessi sistemi che molti anni prima ha contribuito a sviluppare. E tra le invenzioni a guardia dell’ospizio c’è anche un micidiale sistema di difesa attiva che disintegra i ragazzini ispanici non appena varcano i muri di cinta. Perché, come ha osservato Mike Davis, il conflitto della Los Angeles del futuro non sarà soltanto di classe (i ricchi contro i poveri) ma si svilupperà anche sul piano demografico (bianchi contro latini) e generazionale (vecchi contro giovani). E con un geniale ribaltamento di prospettiva, questa volta la gang di sociopatici è composta esclusivamente da ultraottantenni: nichilisti, animati da un puro spirito di vendetta, decisi a distruggere la società dei giovani che adesso vorrebbe escluderli.

Francesco Scalone

Personalmente leggo di storia per sottrarmi alla tentazione di vivere il presente come l’unica dimensione temporale che ci è data. La consapevolezza di essere un anello infinitesimale della catena che moltitudini di uomini intrecciano da millenni, se per un verso immalinconisce, offre tuttavia un appiglio di senso all’esistenza del singolo. Di recente ho dunque riletto le Vite dei dodici Cesari di Svetonio, uno storico della romanità imperiale, considerato minore per non aver saputo andare oltre l’esposizione aneddotica, per non essere cioè stato capace di “pensare” le vicende che racconta.

L’avvio della narrazione è comunque esaltante, forse anche per la grandezza dei personaggi che occupano la scena, mentre si fa piatta e pettegola a lungo andare, quando le piccinerie della corte, pur crudeli, si ripetono eguali. Successione di fatti e dicerie che a volte illuminano l’uomo, ma che spesso restano elenco di episodi. Non mancano malignità - o disprezzo? - anche per Cesare e Augusto (dei rimanenti, da Tiberio a Nerone, l’universale già sparlava senza ritegno). Un libro comunque da leggere, per la massa di informazioni di prima mano che contiene.

Annoto impressioni epidermiche: la gente della Roma imperiale (plebe, ma non solo), nominalmente padrona del mondo ma nei fatti priva di qualsiasi peso politico, pensava ormai solo ai giochi, che si rinnovavano e celebravano a ogni occasione sempre più fastosi e spettacolari: gladiatori, belve, corse di cocchi, fin battaglie navali - e poi teatro. Partecipavano da attori nobili e donne, che mai era avvenuto prima, sazi fino al disgusto di una vita a cui non sapevano più cosa chiedere. Una società corrotta dal profondo: la moltitudine mangiava per distribuzioni gratuite, mentre i nobili si disputavano cariche prive di potere reale e celebravano trionfi senza aver mai combattuto. L’apparenza della gloria avrebbe dovuto mascherare la precarietà del vivere accanto al principe tiranno.

Il quale iniziava sempre ingraziandosi tutti - ma per primi i pretoriani e le legioni - con donativi in denaro, cibo e, s’è detto, giochi senza fine, apparenza di umanità, giustizia, benevolenza per l’universale. Poi, saldo il potere, la musica cambiava. Questi Cesari parevano diventare tutti pazzi, fosse l’onnipotenza incontrastata, la consapevolezza di non poter fidarsi d’alcuno, la noia dell’aver tutto ancor prima di desiderarlo.

Ma la storia è uno specchio nel quale, lo si voglia o no, si riflette il secolo che viviamo - del resto Croce affermava paradossalmente che la storia è sempre contemporanea. Leggendo dei Cesari pensavo al tempo di oggi e alla blandizia subdola dei governanti di un recente passato, i vari principi che ci siamo dati (tralascio i nomi, che sono nella memoria di ciascuno) e ai giochi televisivi distribuiti a profusione e i premi promessi o fatti intravedere e il calcio gladiatorio che tutto sopravanza e l’arrivismo individualistico alla ricerca di una porzione di potere all’interno della gerarchia del denaro. E gli adulatori sfrontati, pur colti e intelligenti, che non si vergognano di nulla: fin di negare l’esistenza della luce credendo di consolidare il principe sul cocchio e promuovergli consenso - e acquisire pelosa riconoscenza per sé. Prebende, tangenti, pensioni d’annata hanno sostituito le distribuzioni di grano e di vino - e gli incarichi consolari a chi non ha bisogno di pane. Il video s’apre ai notabili di oggi che vogliano recitare una qualsivoglia parte che li veda se non protagonisti, almeno ragazzi del coro o ballerine di fila. Capisco d’essere fra i molti di cui Machiavelli dice (con sarcasmo, ironia, compatimento?) “si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero”. Ma non posso fare a meno di rimuginare questi raffronti.

Consola l’uomo della strada, quidam de populo, il leggere come tutto infine ruini - prepotenza, ricchezza, spudoratezza - nella morte politica o comunque fisica e storica. Consolazione sufficiente? Gli spazi di libertà tuttavia nei secoli si ampliano e vi partecipano sempre maggiori moltitudini. Ma la strada ancora non mostra l’arrivo, l’utopia essendo sempre utopia: l’individuo troppo spesso costretto a morire rifiutando il consenso e consegnando ai nipoti la speranza, pago del solo patrimonio della dignità personale salvaguardata nonostante le tentazioni e gli sberleffi del secolo.

DEL PRINCIPE, a cura di a.s.

Una città non si poteva chiamare libera dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati (Machiavelli)

La potenza fondata sulle amicizie conduce a commettere ingiustizie (Plutarco)

Aver stimato più il regnare che l’osservanza della fede (Guicciardini)

Per essere gonfio di boria mi credevo grande (Agostino)

Così menano la loro vita come in scena, dove un personaggio si è dentro e un altro si rappresenta di fuori (Daniello Bartoli)

Dall’unghia si riconosce il leone (Saramago)

Sappia che si esige di più da quelli a cui fu più affidato (Benedetto da Norcia)

Perché ei (il principe) non può mai spogliare uno tanto che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi (Machiavelli)

Questi sarà sorpreso per la sua iniquità: ma della sua morte domanderò conto alla sentinella (Ezechiele)

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“Ormai molto tempo fa, un matematico si recò a Londra per un anno sabbatico. Una serie di circostanze fortuite (e, col senno di poi, anche fortunate) lo fecero rifuggire dal dipartimento nel quale avrebbe dovuto compiere le sue ricerche, e rifugiare alla British Library: la stessa nella quale anche Karl Marx si era rintanato a scrivere Il capitale.”

Dice Piergiorgio Odifreddi nella prefazione al libro Il computer di Platone, un viaggio nelle origini del pensiero logico e matematico. Cosa potrà mai fare un matematico sullo scanno di Marx? Un'opera rivoluzionaria! Continua infatti Odifreddi:

“Il luogo dev'essere evidentemente propizio, perché anche Luigi Borzacchini vi trovò le condizioni favorevoli per concepire e iniziare un'opera «rivoluzionaria»: invece di continuare ad arrampicarsi sui rami dell'albero della conoscenza, come fanno gli scienziati, il matematico incominciò infatti a scavare per dissotterrarne le radici, come fanno gli archeologi del sapere.”

Ma Borzacchini sapeva di essere seduto sullo scanno di Marx? Direi di sì, dato che lo cita a pag. 27:

“... Ma la nostra lettura antropologica e cognitiva della genesi del pensiero formale è anche dentro la storia dell'umana civilizzazione, e la storia dei segni può apparirne la trama nascosta. Così l'inizio del primo libro del Capitale, in cui Karl Marx descrive il passaggio dal baratto all'equivalente generale, alla moneta, ecc. può essere anche letto come l'irresistibile marcia del “segno” nello scambio economico: dal baratto, totalmente “semantico”, all'oro monetario in cui appare il “segno” del conio, un eroe, un re, un dio. Il valore della moneta è all'inizio ancora nel suo materiale, ma questo diminuisce progressivamente a vantaggio del conio, fino alla banconota, nella quale il valore della materia è quasi nullo, mentre sono i segni su di essa che conferiscono alla banconota il suo valore. E Marx non conosceva la «carta di credito», nell'uso della quale non vi è più alcuna materia scambiata, ma solo una manipolazione sintattica!”

Od almeno così mi piace pensarla, la genesi dell'opera.

Se vi aspettaste, a questo punto, che continuassi con la mia recensione, vi sareste sbagliati, questa non è una recensione. Oh, va bene, tanto per concedere qualcosa metto la foto del libro

Copertina libro

Luigi Borzacchini, Il computer di Platone, un viaggio nelle origini del pensiero logico e matematico, Edizioni Dedalo, pp. 510

E vi cito a pag. 507 ... l'indice dei nomi (sic): “Poiché ricorrono in numerosissime pagine, dall'indice mancano i nomi di Aristotele, Euclide e Platone”

Questo è un libro di Filosofia, dovreste averlo capito. Perché lo scrive un matematico allora? E' la domanda che mi pongo dai tempi dell'esame di maturità: perché i libri di filosofia li scrivono solo i matematici?

In Italia, intendo.

Leggibili.

Da me, almeno.

La risposta esiste ed è: essere.

Mi trattengo dalla tentazione di parlarvi, sfruttando Il Borzacchini, del confronto tra l'uso del verbo essere in greco ed in cinese, perché è mia regola leggerli tre volte libri di questa portata, prima di utilizzarli pienamente; magari vado sui geroglifici, che li conosciam tutti, no? Preferireste che partissi dall'inizio? Ma lo ha già fatto l'autore citato, a cui vi rimando per approfondimenti.

OK, facciamo che parto dal 1931! E che succede nel '31? Succede che esce un testo notevole: L'eliminazione della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio di Rudolf Carnap, attacco senza quartiere all'errore filosofico.

Premetterò subito, a scanso di equivoci, che non sosterrò la tesi forte del libro: tutti i problemi della filosofia derivano da errori di linguaggio, ma una variante indebolita: molti problemi filosofici derivano da errori di linguaggio e se proprio insistete mi ritirerò in un ridotto inespugnabile: alcuni filosofi si sono confusi a causa di problemi di linguaggio. Avendo fatto una quantificazione esistenziale mi basta un unico esempio per dimostrare la tesi.

E qui veniamo ad Heidegger.

O meglio, verremmo ad Heidegger (esempio fatto dallo stesso Carnap) se non cominciassi a divagare, perso nei ricordi del mio esame di maturità.

Correva l'anno... lasciam perdere, diciamo ben addentro il XX secolo ed io “portavo” fisica e filosofia, quali materie d'esame. Il fisicalismo1 radicale di Carnap si sposava proprio bene con il mio approccio, ma c'era una difficoltà: Carnap non era in programma. Stesso problema avevo in fisica: volevo parlare dei V-mos (particolari transistor), ma non erano in programma (e neanche i transistor). C'erano, però, i triodi così esordii: “A differenza dei transistor normali, i V-mos hanno caratteristiche, mutatis mutandis, paragonabili a quelli dei triodi...”. Ed in filosofia? Heidegger era in programma, quindi: “la rilevanza della critica di Carnap ad Heidegger non ha ancora oggi raggiunto la consapevolezza di molti filosofi italiani...” dichiarai al professore di filosofia, uno dei tanti marxisti che occupavano tutti gli spazi della vita civile in quegli anni bui. 😉

Ed oggi? Ha raggiunto la vostra consapevolezza?

Facciamo un test, una domandina semplice semplice: quali sono le accezioni del verbo essere?

Vi do pure un aiuto, una accezione l'ho usata poco fa parlando di quantificazione e dovreste arrivare almeno a sei, per cui mi contento di tre. Pensateci prima di leggere la soluzione in fondo2.

Da quel dì per vari anni, quando sentivo parlare di “certi” filosofi e di “certi” problemi, in special modo Heidegger ed essere, invariabilmente chiedevo: “che mi dici della critica di Carnap?”, “Carnap chi?” era l'invariabile risposta se la domanda era posta in italiano. Ora capite perché gli italiani li leggo solo se sono matematici! Ed in inglese? Eh, Eh, traducetemi l'Essere in inglese. The Being? Niente affatto, vuol dire l'Essente. The to Be? Sgrammaticato, non si può dire. Sarà un caso che la filosofia analitica si è sviluppata in inglese? Carnap però scrive in tedesco e la sua critica all'originale tedesco di Heidegger, nella sua stessa lingua, può svegliare dal “sonno dogmatico” chi comprende il tedesco. Lo stesso Heidegger pare abbia dato ragione a Carnap in tarda età, ma la quistione della convergenza tra Carnap ed Heidegger, impostata recentemente da una studentessa del Liceo Scientifico di Cividale del Friuli, pur avendo avuto la succitata risposta dal suo professore di filosofia, resta per me ancora aperta.

Certo che mi giovo del contributo di menti fresche, il periodo di massima creatività declina già verso i vent'anni, consiglio anche a voi di dare credito a discussioni di filosofia con studenti dei Licei, quello che si perde in preparazione si guadagna in acume.

Dato che la quistione sta arrivando ad essere considerata anche in Italia (libro di recente pubblicazione, studenti dei Licei che leggono e discutono il testo di Carnap) spero di avervi invogliato ad affrontarla e, scusandomi per la frettolosa, momentanea, chiusa, vi saluto dandovi l'appuntamento alla prossima puntata.

Giulio Cesare Cesari

Note:

1 Preminenza delle asserzioni spazio-temporali, una forma di materialismo

2 esistenziale, veridica, copulativa, di appartenenza, di inclusione, di identità, poi varie quali di luogo e di tempo

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