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Appunti liberi di Lezioni Magistrali - Parte Terza. Umberto Galimberti: Dal sapere simbolico al sapere tecnologico. Carpi, piazza Garibaldi, Sabato 15 Settembre 2007

Il giuoco dei poli entro il quale si consuma l’esistenza dell’essere umano, l’esistenza dell’essere pensante, è quello tra l’universo simbolico e il sapere tecnologico, oppure, in altri termini, tra l’enigma e la razionalità strumentale. Alla base di tutto questo è la scissione tra anima e corpo, scissione che ha inaugurato la scienza moderna e che oggi, nel trionfo della tecnica, è giunta al suo parossismo.

Ma incominciamo da una domanda che si pone a monte: il sapere è davvero una ricerca della verità? La risposta, afferma Galimberti, è no. Prendendo spunto dalla dottrina della genealogia nicciana, secondo la quale non dobbiamo domandarci l’essere dell’oggetto, quanto da dove esso venga, Galimberti considera il sapere piuttosto come un’istituzione umana preposta alla previsione dell’imprevedibile: esso è stato fondato unicamente per contenere l’angoscia degli uomini, la paura dell’imprevisto. L’uomo vive se prevede. Sapere è dunque tentativo di superamento della paura. I bambini ad esempio, che ignorano i nessi più semplici delle cose, sono continuamente in allarme.

Domandiamoci a questo punto cosa sia il simbolo, e domandiamoci anche quale sia il significato del pensiero simbolico. Il simbolo (syn, insieme + ballo, getto, pongo, = mettere insieme) è il risultato del processo attraverso il quale l’oggetto riceve un portato della psicologia del soggetto. Ad un primo esame un tale processo non può far altro che accrescere la distanza cognitiva tra il soggetto e l’oggetto. Il primo ad aver avuto questo sospetto è stato Platone, il quale ci dice che se vogliamo istituire un linguaggio universale, dobbiamo anzitutto scardinare il simbolo. Per cercare l’oggetto così come è e non sottoforma di un dio, di un’emozione o altro, è necessario liberarsi dai gangli del pensiero simbolico, ovvero imparare a conoscere l’oggetto secondo il principio di non contraddizione, il principio di identità, ed espungendo il dato psicologico e corporale che insidia continuamente il processo di costruzione del linguaggio. Ecco perché Platone afferma che i poeti rappresentano un male per la comunità. Il corpo non informa bene, il corpo inganna. Sarebbe necessario istituire un sapere fatto soltanto di numeri ed idee, scacciando il corpo e le emozioni. Tale vuole essere il linguaggio filosofico, fatto di razionalità ed astrazione, tale è il linguaggio col quale io posso dire che questa sedia è quel che è, in ogni luogo e in ogni tempo. Questo è l’Occidente, la cui storia può riassumersi nella lunga istituzione di un sapere fondato sulla scissione dell’oggetto dal soggetto, attraverso il numero, le idee, la negazione, dati con i quali l’Occidente costruisce la struttura del discorso.

Il primo importante traguardo di questa storia è il linguaggio scientifico. L’uomo è qui un giudice che ha come imputato la natura. L’uomo decide cosa la natura sia e come vada trattata: Heidegger coglie pienamente il senso di questo dato, quando dice che il mondo si organizza mediante l’esigenza umana, quindi un fiume è una risorsa di energia elettrica, il suolo è sottosuolo, il lago una riserva idrica ecc.

Il secondo traguardo della storia dell’Occidente è il linguaggio tecnologico. Qui occorre domandarsi cosa sia la tecnica. Essa è una realtà complessa, che possiamo definire come l’insieme degli strumenti, come la forma più alta di razionalità che l’uomo abbia mai raggiunto, nella quale non esiste spreco, non esiste sovrabbondanza, c’è perfetta armonia tra mezzo e scopo, essenzializzazione radicale della vita, ancor più di quanto accade nell’economia, perché il modello di riferimento della tecnica è la macchina. L’uomo di fronte alla macchina è un essere profondamente diverso, ed è così che egli, per vivere in armonia con la tecnica, deve adeguarsi ad essa, fino a divenire non più l’heideggeriano “pastore dell’essere”, bensì, come direbbe Günter Anders, “il pastore delle macchine”. L’uomo cerca la propria identità nel riconoscimento in un proprio apparato di appartenenza, anzi, si può arrivare a dire che la sua identità è oramai interamente delegata all’apparato. La tecnica essenzializza la vita e la natura, si contrappone a tutto ciò che è incomprensibilmente sovrabbondante, generoso, come è sovrabbondante e generoso il linguaggio di due innamorati. La vita, dunque, è incomparabile con la tecnica e viceversa.

Qual è la conseguenza di tutto questo? Il dato più rilevante è che noi perdiamo il contatto con noi stessi: l’apparato ci conduce allo smarrimento, perché ha espulso il simbolico, lo psichico, l’emotivo, ha espulso il mondo della vita. La tecnica ci allontana dalla conoscenza di sé, e poiché la natura non istintuale dell’uomo lo obbliga a prendersi cura di sé, la tecnica ci allontana anche dal prenderci cura di noi stessi. L’uomo è in grado di prendesi cura di sé in molti modi diversi. Quella cristiana, per esempio, è stata ed è ancora una cura largamente adottata. Essa ha trovato il modo di reperire il senso della vita per l’uomo nell’idea di un’esistenza ultraterrena. Così facendo, il Cristianesimo ha conferito un senso al tempo iscrivendolo in un disegno escatologico nella cui fine si realizza la salvezza annunciata all’inizio. Dentro il Cristianesimo c’è una domanda di senso, ovvero un modo con cui l’uomo ha voluto prendersi cura di se stesso. Ma per ogni animo, la cura del Cristianesimo si traduce in una pratica di buona condotta, la quale a sua volta si traduce in una morale della repressione, finché ciò che doveva essere una cura si tramuta in afflizione. Oggi, continua Galimberti, non è più la repressione che ci affligge, ma la mancanza di senso: la tecnica ci priva di senso e ci precipita nell’angoscia. Ci ostiniamo a cercare un senso alla nostra vita quando la nostra vita ha il solo senso di vivere, per finire nel turbine dell’apparato che ci allontana dalla comprensione di noi stessi.

La vita è una dimensione prerazionale, esattamente come il simbolo, così se non entriamo nella simbolica dell’altro non potremo mai intenderci appieno col prossimo. La ragione dunque, la razionalità, non è tutto, ma un insieme di regole. La dimensione della ragione galleggia nell’oceano del simbolico. I simboli sono potenti e i conflitti del nostro tempo stanno a dimostrarlo: con le ragioni ci si mette d’accordo, con i simboli no. La riappropriazione del senso e della cura di sé dipende così dalla possibilità di trovare un canale di comprensione tra diversi sul piano del simbolico. Il dialogo, inteso come un conflitto simulato tra due ragioni contrapposte (dia-logos, contrapposizione di logoi) è esattamente ciò che costituisce questo canale. Il dialogo come recupero di senso e cura di sé è possibile nella misura in cui ci riconosciamo come portatori di quella cifra prerazionale che è il simbolico, attraverso quel che James Hillman ha definito come un codice archetipico col quale ci individuiamo e candeziamo la nostra vita.

Umberto Galimberti (Monza, 1942). Filosofo italiano. Allievo di E. Severino, è attualmente ordinario di Filosofia della Storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Al centro della sua ricerca è il rapporto tra l’uomo e la tecnica nel mondo contemporaneo. Tra le sue opere più importanti: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli equivoci dell’anima (1987) e Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica (1999).

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Dato l'interesse di alcuni e lo sconcerto di altri, nel gruppo “La Fornace”, voglio, brevemente, commentare l'articolo "Verso un'epistemologia triadica" di Ettore Perrella. (Leggi sul sito dell'autore)

Trattasi di un articolo, per me, di difficile lettura, non perché sia incomprensibile o poco comprensibile, è di fatto comprensibilissimo, ma arcaico nella sua impostazione, cosa forse non sgradita all'autore, dato che enuncia un programma arcaicizzante ;-).

Già in passato ho manifestato la riluttanza ad interloquire con chi parla di metafisica prescindendo da Carnap; ebbene una variante della stessa sensazione posso esprimerla così: "Come si fa a parlare di epistemologia prescindendo da Kuhn?". Significa buttare tutto il XX secolo!

Il disagio sorge anche dal dover ripercorrere i ragionamenti lontani, quando studente liceale di storia della filosofia affrontai questioni similari a quelle prospettate da Perrella, per dedicarmi, in seguito, all'approccio analitico, ma faccio comunque lo sforzo non potendo escludere a priori che qualche progresso sia possibile. A prima lettura non mi sembra che ci siano stati approfondimenti particolari, anche se trattasi di una buona esposizione di posizioni tradizionali. Naturalmente potrebbe essermi sfuggita qualche sottigliezza, per cui sono aperto al confronto.

Dirò subito che io salvo una parte dell'articolo, quella sulla consequentia mirabilis (comma 😉 4). Intanto l'autore la enuncia correttamente: “se, dalla negazione della proposizione A, si deduce A, allora A è vera” [io però la scriverei in stile più moderno: ( ~A -> A ) -> A ], il che è più di quanto fanno molti, poi la spiega in modo corretto e comprensibile. Di grande interesse sarebbe per me discutere de "La contraddizion che nol consente" dello "Ex falso quodlibet" o del sillogismo in Barbara che ho citato persino in un lavoretto teatrale (noto come 'il dialogo dei transfiniti' o 'l'acrobata') e delle fallacie che impestano il discorso contemporaneo, in particolare quello politico. Qualcuno ricorderà persino la CdCS (Campagna di Chiarificazione Semantica) da me lanciata a livello di massa 😉 nel tardo XX secolo e, per questi fini, una presa di coscienza dei risultati della scolastica è già un passo avanti.

In sintesi, a me l'articolo, pur adatto ad approfondire il pensiero di Palamas, sembra poco utile per un arricchimento sull'epistemologia contemporanea. Darò appena qualche puntatore schematico del perché

1) La scienza di Galileo, dice varie volte l'autore, forse inconsapevole del fatto che la scienza di Galileo è la scienza di Archimede. Ebbene tra le cose che fanno grande Archimede (di cui spero di parlare più diffusamente nell'articolo "Il floppy di Archimede") è una chiara comprensione del metodo assiomatico, cioè della modellistica, ovvero, per umanisteggiare un po', del fatto che la mappa non è il territorio. Affermazioni sulla duplice natura, corpuscolare ed ondulatoria, della luce attestano la sorprendente realtà del fatto che l'epistemologia (nella fisica) del primo XXI secolo non ha ancora raggiunto quella di Archimede. Perrella liquida il metodo assiomatico quale residuo aristotelico, ma sa di cosa si tratta? Dal fatto che dice: "La sola differenza fra ciò che comunemente viene chiamato scienza e ciò che comunemente viene chiamato filosofia sta nel fatto che solo la prima può consentirsi di ricorrere a dei principi assiomatici senza che da questo derivi nessuna falsificazione dei suoi contenuti e dei suoi risultati (se non sul piano etico), mentre la seconda non può fare ricorso a questo metodo senza falsificare totalmente se stessa", sembrerebbe di no. FIII! Fallo di Realismo. Ma in fondo è un platonico, consequitur. Qualcuno dovrebbe dirgli, però, che "Falsificazione" , dopo Popper, ha un significato tecnico ben preciso in epistemologia. Ma forse lo sa e finge di non saperlo, in fondo dice "Tutto ciò ha qualcosa a che vedere con una possibile epistemologia? Naturalmente no, se si pensa che la scienza debba solo considerare le cose del mondo a partire da fondamenti assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica."

Ebbene: "La scienza si fonda su principi assiomatici indimostrabili, nessuno dei quali è di natura etica". JC dixit

2) Che mi dice Perrella sulla "Ethica more geometrico demonstrata"? Nulla! Si vede che gli sta antipatica e del resto il programma di rendere scientifica l'etica è speculare al suo e, a mio giudizio, più utile. Del resto uno dei miei "lavoretti" giovanili (17 anni) è stata la giustificazione pragmatica dell'etica che affrontai come esercizio preparatorio alla giustificazione pragmatica dell'induzione. Rimando ad altro momento lo sviluppo del mio "neo-utilitarismo pesato" dove il vero lavoro sta nella matrice di calcolo dei pesi e non in discorsi fumosi, per esigenza di tempo

3) sul non-essere ho già detto

4) Esplicazione o lettura di Palamas? Mi dichiaro non competente

5) Ma gli Enti sono quelli che han smarrito le Entesse? Ma no dai, lui intende Entia! Allora "Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem". E poi si dice Categorie, oggi. Quando mia figlia aveva un anno e mezzo mi lessi il carteggio tra Kuhn e Feyerabend per prepararmi adeguatamente alla sua costruzione di categorie. Si, sono orgoglioso di essere aristotelico, sull'argomento. Dopotutto siamo animali evoluti nella savana, allorché razionali.

6) "Chiamiamo metafisica la scienza dei fondamenti del sapere" Ah Perrè, e se la botte si chiamasse vino ed il vino acqua...

E con l'ultima battuta mi è venuta sete e fame, per cui vos salutem dico,

Jiulius Caesar


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A proposito dell'intervento di Fabrizio e della replica di Giorgio.

Chiedo scusa per occupare altro spazio nel merito di una questione che ha già spazientito a sufficienza. Sarà una brevissima aggiunta. Giorgio si chiedeva giustamente che diavolo intende Perrella con etica? Non mi permetto di
rispondere solo perchè non sono sicuro che lo farei in modo del tutto appropriato. Rimando per chi fosse interessato a due luoghi appassionanti di agomentazione dove è possibile avvicinarsi ad una possibile risposta: il seminario sull'etica di Lacan e il bellissimo libro "Il tempo etico" di Perrella. Si tratta di due luoghi psicanalitici. Non
credo sia facile accedere al senso dell'etica che intende Perrella a priscindere dalla sua esperienza psicoanalitica. Quindi un campo di esperienza individuale e molto pratico. Ho sempre pensato che gli psicoanalisti dovrebbero dedicare un pò di tempo a spiegare il concetto di etica psicoanalitica, perchè dare per scontato che chi ascolta
capisca con il solo supporto del termine è del tutto irrealistico. E' vero che chi vuole può capire ma non si può pretendere che tutti vadano a leggersi i testi più adatti. Inoltre mi sembra del tutto evidente che questo termine è pensato in tuttaltro modo sia nella filosofia che nel senso comune. Aggiungo che l'etica non è la morale, non ha molto a che vedere per esempio con il codice deontologico e l'etica professionale. Queste sono piuttosto il sintomo di una mancanza di etica. Un pò come Paolo di Tarso trattava la Legge: una stampella a sostegno dell'incapacità di amare e di essere giusti come Cristo. Ma non può essere la Legge a fare la giustizia perchè questa dipende solo dall'atto "giusto". Si può essere iniqui nel rispetto della legge (vedi Previti e Berlusconi) e si può essere giusti nel non rispetto della legge (vedi Antigone). Ma finchè non si riesce ad essere giusti è meglio rispettare la legge perchè questa nasce comunque con l'intento di aiutare ad esserlo. Scusate se torno ad un livello molto più basso ma prima di tutto l'etica ha a che fare con l'atto che ogni uomo compie ogni volta che sceglie, anche quando non nè è consapevole.

La morale, la teoria, la conoscenza, il transfer verso il soggetto supposto sapere, ecc... sono tutte stampelle che utilizziamo per risparmiarci ogni volta di compiere un atto nel senso pieno. Nel discorso sul metodo Cartesio ha effettuato questa operazione di incontrare al di là di tutte le sovrastrutture simboliche il reale della propria soggettività fondante il mondo. Ogni volta il mondo è quello che abbiamo più o meno "scelto" che sia. Non nel senso di una produzione delirante o di idealismo assoluto, ma nel senso che il mondo in sè non esiste ed esiste solo un mondo relazionato a noi e alla nostra possibilità di accoglierlo.

Per gli antichi ad esempio era piatto, fermo, ecc... Quello che è il mondo in sè non ci è ne mai ci sarà accessibile. La scienza e la filosofia sono tentate dall'idea di non aver bisogno di rifondarsi etica mente ogni volta convinti che ci si possa accontentare della fondazione che Cartesio ha fatto una volta per tutte e per tutti. Questo atteggiamento contribuisce molto alla produzione di questa enorme pigrizia
ed indifferenza che caratterizza il tempo in cui viviamo. Ma basta guardare con un pò di attenzione e ci rendiamo conto che non è così. Il fisico non è soggettivamente
escluso dall'esperimento perchè ad esempio è in base alla sua scelta che una particella si manifesta come corpo o come energia. Il principio di indeterminazione stabilisce che solo l'atto osservativo fissa la realtà della materia. Ma non voglio addentrarmi in un ambito che non è il mio e con sò maneggiare in modo appropriato. Parlare dell'atto e dell'etica come di qualcosa di generale o di fondante
l'Essere in generale significa parlare dell'atto di Dio che si dice sia inconoscibile. Il nostro atto è invece molto più tangibile e conoscibile anche se un pò più difficile da
trasmettere.
Davide di Francia