26.11.09
“(DOVE) E’ FINITA LA SINISTRA?”: RESOCONTO DELLE SERATE DEL MAGGIO FILOSOFICO
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Le quattro serate che hanno caratterizzato la rassegna del “maggio filosofico” di quest’anno sono state dense di contenuti, rispetto ad un tema di stringente attualità politica. Per proseguire il dibattito, si riporta in queste pagine un resoconto degli interventi presentati dai vari relatori, ciascuno dei quali ha affrontato il tema sulla base non soltanto della propria specializzazione accademica, naturalmente, ma anche sulla scorta della propria sensibilità politica. La discussione in seno al nostro gruppo è ancora in corso. Pubblicheremo in seguito commenti ed impressioni emerse nella discussione, cui si invitano a partecipare anche i lettori, che possono inviare i loro commenti a
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Nella prima serata, intitolata “Fine di un sogno? Il comunismo”, è stata fatta una riflessione sull’esperienza del comunismo novecentesco con Domenico Losurdo, professore di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino. Lo spunto di riflessione del prof. Losurdo è parso ottimista, ritenendo sostanzialmente che non siano per nulla finiti né la sinistra, né tantomeno il “sogno” comunista, declinando questo termine come le conquiste sociali acquisite dalle tante rivoluzioni del passato (da quella francese a quella bolscevica, da quella cinese a quella cubana, ecc.). Per spiegare perché mai le conquiste sociali ottenute da questi movimenti rivoluzionari siano in qualche modo da ritenersi acquisiti, Losurdo fa riferimento al concetto di “apprendimento continuo”, in base al quale tali conquiste scaturiscono sempre dall’interagire dei punti di forza e degli errori compiuti in passato dalle stesse forze rivoluzionarie. Il concetto di “apprendimento continuo”, pertanto, è da intendersi in senso dialettico-hegeliano, e costituirebbe quindi una sorta di “spirito del tempo”, ovvero di “senso della storia”.
Per questo motivo, egli critica ferocemente il concetto trozkysta di “rivoluzione permanente”, che finisce col negare proprio il momento dialettico. Il concetto di “apprendimento continuo”, prosegue Lorsurdo, può essere declinato oggi prendendo come esempio i Paesi dell’America Latina, che nell’ultimo decennio sono finalmente riusciti a conquistare una forte emancipazione politica ed economica nei confronti degli USA, da Lula in Brasile a Chavez in Venezuela, e ad Evo Morales in Bolivia. Un altro esempio a cui fare riferimento, secondo Losurdo, è la Cina, come esempio proficuo di una nuova NEP, che è riuscita a divenire una potenza economica pur continuando a rivendicare la propria eredità comunista.
Da un punto di vista storico, dunque, Losurdo valuta positivamente l’intera esperienza dell’Unione Sovietica. Ad esempio, egli ritiene che la spinta esercitata dall’URSS sui Paesi occidentali, specialmente durante la guerra fredda, sia alla base del cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano” che ha caratterizzato un periodo in cui il welfare, i salari ed i diritti sono stati massimamente estesi in occidente. Inoltre, Losurdo ha denunciato la “semplificazione revisionista”, che considera sullo stesso livello i due totalitarismi, quello nazista e quello stalinista: “semplificazione” che si basa quasi esclusivamente prendendo come riferimento il patto Molotov-Ribentropp, che diede il via alla seconda guerra mondiale. In realtà, precisa Losurdo, tale patto era stato sottoscritto dall’URSS come condizione inevitabile per preservarsi dal possibile attacco nazista, e per prepararsi militarmente alla difesa. D’altro canto, l’anno prima del patto erano state le stesse democrazie occidentali a trattare coi nazisti (Patto di Monaco), e facendo loro delle concessioni territoriali, nella speranza che in questo modo Hitler rivolgesse la sua forza bellica proprio contro l’Unione Sovietica.
Il relatore della seconda serata, che è stata dedicata alla crisi della forma partito e dei consensi elettorali delle forze politiche di sinistra (in particolare in Italia), è stato Valerio Romitelli, professore di Storia dei movimenti e dei partiti politici presso l’Università di Bologna. L’intervento di Romitelli ha preso le mosse proprio dal concetto di “apprendimento continuo” proposto da Losurdo, ritenendolo ingenuo e speranzoso. Per Romitelli, infatti, nessuna conquista sociale si può ritenere acquisita; anzi, politicamente si può persino “disimparare” e, a tal proposito, ritiene che a sinistra si stia diventando un po’ tutti “analfabeti di ritorno”. Ricordando che storicamente “sinistra” designava, nelle prime assemblee parlamentari, coloro che sedevano a sinistra del monarca, e che queste aree politiche si caratterizzavano per volere genericamente una maggiore giustizia sociale; e ricordando che tutt’oggi la categoria “sinistra” ha mantenuto prevalentemente questa accezione, Romitelli ha concluso che oggi la crisi della sinistra, si può ricondurre, in estrema sintesi, al fatto che negli ultimi 30 anni è progressivamente aumentata la disuguaglianza sociale. A partire dalla svolta neomonetarista e neoliberista dei primi anni ’80, infatti, le idee della sinistra sono state poste sempre più sotto assedio, circondate da quelle egemoni.
Al fine di resistere a questo assedio, Romitelli sostiene che è necessaria la ricostruzione di soggettività politiche; è importante anche soltanto schierarsi, prendere posizione. O anche soltanto “restare in ascolto”, mettersi in rete, o valorizzare l’amicizia, come modalità di declinazione del più generico “partire dal basso”. La necessità di ricostruzione delle soggettività politiche va intesa nel senso di ricominciare a partire dai corpi, che costituirebbero lo strato più basso della conoscenza. In questo senso, ripartire dall’indagine sulle condizioni del lavoro in fabbrica, così come facevano a suo tempo gli operaisti, è un modo concreto di ricercare una via di uscita dal neoliberismo della sinistra. Si tratterebbe, quindi, di riprendere gli studi di sociologia del lavoro che venivano fatti a suo tempo, per comprendere come il processo di frammentazione aziendale abbia condotto ad un progressivo isolamento dei lavoratori, e di conseguenza ad una progressiva perdita di coscienza comune dovuta al fatto di non condividere lo stesso posto di lavoro.
Nella terza serata è stato affrontato il tema della crisi della sinistra intesa come fine di un’egemonia culturale, in particolare nel campo della formazione. I relatori della serata sono stati il prof. Alessandro Russo, docente di Sociologia presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna; ed il prof. Luigi Guerra, preside della facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna, e docente di tecnologie dell’educazione.
Quest’ultimo ha rilevato come la principale funzione positiva della scuola di massa consista nell’essere livellatrice, nel suo ridurre in partenza le differenze di opportunità, a prescindere dalla classe sociale di provenienza. L’istruzione è dunque una delle principali forme di emancipazione delle classi subalterne, permettendo la creazione di cittadini liberi dall’ignoranza e dalla sopraffazione. Oggi l’attacco alla scuola pubblica minaccia la sua funzione positiva, sostituendo un’istruzione basata sull’individualizzazione dei bisogni con una che punta, invece, sulla personalizzazione dei curricula. La scuola pubblica uscita dalla Costituzione repubblicana – spiega Guerra – puntava all’individualizzazione delle capacità e dei problemi di ogni singolo alunno, in modo tale da aiutare a colmare i deficit di apprendimento dei secondi e valorizzare i primi; in altri termini, gli stessi programmi scolastici venivano “tarati” dall’insegnante sulla base delle capacità dell’alunno. Viceversa, il modello di scuola verso cui puntano gli attuali governi sono ispirati al principio di personalizzazione, ovvero ogni alunno frequenta le materie che più gli aggrada, senza curarsi del fatto che tali materie siano davvero utili o meno per la sua formazione. Proseguendo con la citazione di alcuni dati relativi ai tagli alla ricerca ed all’istruzione pubblica, Guerra ha quindi concluso invocando la necessità a sinistra di sostenere la battaglia in difesa della scuola pubblica.
L’intervento del prof. Russo è sembrato un po’ più pessimista: egli ha espresso da subito le sue perplessità sulle parole di Calamandrei, che già negli anni ’50 considerava la scuola come “organo costituzionale della democrazia”. A queste parole, che sono state evocate per introdurre il tema della serata, Russo ha ribattuto, in maniera provocatoria, che per la sovranità statuale la pubblica istruzione non è per nulla necessaria, né è da considerarsi cosa assodata: infatti, il “nocciolo duro” della sovranità statuale si basa sul monopolio della forza fisica e sull’imposizione fiscale necessaria per sostenere i costi di tale monopolio. La provocazione del prof. Russo aveva la finalità di ricordare che, di fronte all’attacco portato oggi alla scuola pubblica italiana, non c’è una società civile sufficientemente consapevole da resistere a tale attacco. In pratica, Russo voleva dire: “attenzione, guardate che per lo Stato non è detto che sia indispensabile una scuola pubblica, anzi, in questi tempi di “Stato leggero” potrebbe volersene disfare. Nel ‘900 c’era la spinta della Rivoluzione d’Ottobre, per contenere le spinte dei nascenti partiti di massa, la scuola pubblica era funzionale a contenere questa spinta, ma oggi non è più così”.
A questa provocazione, Guerra si è limitato a ribattere che il capitalismo oggi ha bisogno, come minimo, di una scuola per formare i consumatori, per cui non si potrà più fare a meno di un sistema di istruzione pubblico.
La quarta e ultima serata del ciclo è stata incentrata sul rapporto tra la crisi della sinistra e quella economico-finanziaria. Quest’ultima è stata provocata, come noto, dai mutui sub-prime, e più in generale dall’idea che, a fronte di salari sempre più contenuti, si possa sostenere la domanda all’infinito tramite l’indebitamento delle famiglie. Si tratta, quindi, di una crisi che sconfessa gli stessi presupposti dell’egemonia neoliberista (secondo cui la priorità è il contenimento dell’inflazione, e quindi dei salari; e la riduzione dei tassi d’interesse e della pressione fiscale per rilanciare gli investimenti), cosicché la ricerca di una via di uscita potrebbe costituire un’opportunità per le forze politiche della sinistra.
I relatori della serata sono stati Giorgio Gattei, docente di storia del pensiero economico presso l’Università di Bologna; e Luigi Cavallaro, magistrato del lavoro presso il tribunale di Palermo e redattore di diverse riviste, tra cui “Critica marxista” e “900. Per una storia del tempo presente”. Alla domanda se sia possibile uscire dalla crisi da sinistra, Cavallaro ha subito risposto negativamente, specificando che il suo netto “no” è da intendersi con riferimento alle forze ed alla classe politica della sinistra attuale, in special modo quella italiana. Del resto, il suo libro intitolato “Tra due destre” (che richiama esplicitamente il libro di Marco Revelli di una decina di anni fa “Le due destre”), che raccoglie una serie di suoi articoli ed interventi, non lascia adito a dubbi: il programma politico delle forze della sinistra italiana, così come le politiche adottare dai due governi Prodi, sono esplicitamente di stampo neoliberista, fatta salva la priorità del pareggio di bilancio anziché della riduzione fiscale.
In effetti, Cavallaro ha iniziato il suo intervento facendo riferimento al recente libro dei due economisti italiani più genuinamente liberisti, Giavazzi ed Alesina, il cui titolo è “Il liberismo è di sinistra”, ed in cui si sostiene che soltanto la rimozione di tutti gli ostacoli alla libera concorrenza potrà garantire pari opportunità a tutti. Naturalmente, in questa tesi si ignora che il fatto che le ricette liberiste (sia quella old, sia quella neo) hanno fallito, avendo condotto più volte ad equilibri di sotto-occupazione, oggi così come 80 anni fa. Inoltre, l’impresa privata non è in grado di poter investire sui servizi essenziali: di qui, la necessità dell’intervento regolatore dello Stato, sia per creare la domanda che manca per uscire dalle crisi di sotto-occupazione, sia per garantire i servizi essenziali al buon mantenimento dei lavoratori (welfare). Cavallaro ha ricordato anche le responsabilità della UE, ed in particolare del processo d’integrazione monetaria avviato con il Trattato di Maastricht, che ha stabilito i famigerati “parametri di convergenza” per rispettare i quali è iniziato il percorso di precarizzazione del lavoro. Per uscire dalla crisi, invece, è necessario un ritorno allo Stato disciplinarista. Da questo punto di vista, in Italia si è paradossalmente dimostrato più “statalista” (entro certi limiti) il centrodestra piuttosto che il centrosinistra.
Nel suo intervento, Gattei ha condiviso con Cavallaro il fatto che oggi la via di uscita alla crisi economica si può trovare soltanto se si ritorna ad attribuire la priorità alla domanda, riprendendo quindi la lezione di Keynes. Tuttavia, Gattei non riconosce il ruolo centrale dello Stato per creare la parte di domanda deficitaria, poiché le dimensioni finanziarie dell’attuale crisi non consentono agli Stati nazionali di fare ricorso al deficit spending, dovendo gli Stati già provvedere a salvare i colossi finanziari dalla bolla dei titoli tossici (anche se per l’Italia il problema non è tanto questo, quanto semmai l’ingente debito pubblico). Pertanto, la via per uscire dalla crisi, secondo Gattei, passa da sinistra, purché sia il capitale stesso che impari ad essere di sinistra. Si tratta, quindi, di una risposta un po’ più ottimista di quella fornita da Cavallaro, anche se non è chiaro chi dovrebbe insegnare al capitale ad essere di sinistra (cioè, si capisce che la sua visionaria risposta vorrebbe essere: “chi altri se non noi?!”). Più precisamente, la soluzione prospettata da Gattei si basa sul concetto di flexicurity, che caratterizza gli ammortizzatori sociali nei sistemi di welfare scandinavi (e in particolare in Danimarca): in pratica, chiunque perda il lavoro continua ad essere retribuito per un certo numero di anni con un salario di poco inferiore, finché non trova un’altra occupazione; nel frattempo, il disoccupato viene seguito con corsi di formazione, al fine di agevolare la ricerca di lavoro. La sostanziale differenza tra quanto proposto da Gattei e ciò che avviene nei Paesi scandinavi è che nel primo caso il costo dell’ammortizzatore sociale ricadrebbe interamente sul datore di lavoro, tramite un pesante aumento della contribuzione sociale; mentre nel secondo caso, il costo è carico dello Stato, ovvero della fiscalità generale.
Nel corso del dibattito, con riferimento all’intervento di Cavallaro, è stata rilevata un’analogia tra l’idea che per uscire dallo Stato vi sia una forte necessità dello Stato stesso e, in termini filosofici, il concetto di “in sé e per sé” hegeliano. Cavallaro ha anche fornito alcuni riferimenti concreti di questo concetto, parlando della necessità dello Stato in Sicilia, basato sulla sua esperienza di magistrato del lavoro.
Sempre con riferimento all’intervento di Cavallaro, è stata sottolineata un’altra analogia, relativamente al principio di riduzione delle scelte che inevitabilmente comporta uno Stato Sociale. Da un lato, infatti, lo Stato Sociale implica il riconoscimento soltanto di alcuni bisogni collettivi dei cittadini (e non di tutti i bisogni, sarebbe impossibile) cui lo Stato deve assolvere; dall’altro, la libertà individuale di scelta è limitata per il bene collettivo (ad esempio, l’obbligo di frequentare l’istruzione primaria, oppure il divieto di guidare un’auto per i minorenni). Questo si collega al concetto di individualizzazione presentato da Guerra nella serata sulla formazione. Per quanto concerne, infine, l’intervento di Gattei, anche in questo caso è stata rilevata un’analogia con il principio di personalizzazione: al modo di produzione flessibile, su domanda o just in time, con conseguente precarietà del lavoro, sembra volersi adeguare, infatti, la scuola basata sulla personalizzazione dei curricula.
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