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Storia

LA MORTE DELLA JUGOSLAVIA MONARCHICA E LA RINASCITA POST-BELLICA


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Come si era già anticipato, "La Fornace" ha partecipato a varie attività del festival delle culture anti-fasciste, ed ha altresì partecipato al maggio anti-fascista di Casalecchio, Nell’ambito del festival, in particolare, alcuni di noi hanno seguito il dibattito sul caso jugoslavo (“tra ricerca storica, rimozioni e disinformazione”), ed in particolare sui vari tentativi revisionistici sulla ricostruzione della resistenza in Jugoslavia. In questo stesso ambito, altri soci hanno seguito lo spettacolo teatrale sul campo di concentramento di Jasenovac, il più grande della seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Per mantenere viva la memoria su questa questione, e proseguire il dibattito, pubblichiamo qui di seguito un paragrafo di una tesi sui fondamenti geopolitici della crisi jugoslava, scritta da uno di noi nel lontano 1993.

Gli equilibri precari scaturiti dai trattati di Saint-Germain e di Sèvres, al termine della Prima Guerra Mondiale, non sono stati in grado di risolvere in maniera stabile la spinosa Questione d'Oriente; va infatti segnalato che molti degli Stati balcanici sono da allora progressivamente caduti nei due decenni successivi sotto il controllo di regimi autoritari e dittatoriali. Anche il Regno jugoslavo, come s'è visto, logorato dalla contraddizione interna serbo-croata e da una dittatura centro-unitarista serba, economicamente messa in ginocchio prima dal difficilissimo dopoguerra e dopo dalla crisi economica degli anni '30, si trovò dopo solo venti anni di esistenza con fortissime tensioni latenti, la cui esplosione avrebbe provocato la distruzione dell'intero Paese.
Da quando, infatti, il 6 Aprile 1941 le truppe della Germania nazista invasero il Regno jugoslavo, bastarono soltanto quattro giorni perché i Croati proclamassero a Zagabria lo Stato Indipendente Croato, sotto l'egida del III Reich; dopo soltanto un’altra settimana, poi, precisamente il 18 Aprile 1941, l’esercito jugoslavo capitolò di fronte all’incedere inarrestabile delle truppe tedesche: si andava così realizzando un vecchio disegno pangermanista.
Il 18 Maggio dello stesso anno veniva stipulato a Roma un accordo per “Il rispetto delle garanzie e della collaborazione tra il Regno di Croazia ed il Regno d’Italia”: secondo tale accordo, l’Italia veniva di fatto a gestire il nuovo fantomatico Stato croato. L’accordo prevedeva infatti che lo Stato "indipendente" croato divenisse un protettorato italiano, tanto più che la corona dell’antico re croato Zvonimir dell’XI secolo veniva offerta al Duca Aimone di Spoleto, membro di casa Savoia. A capo dell’esecutivo del nuovo stato, era stato posto il leader del Partito Croato Ustascia Ante Pavelic, il quale decise di spostare la capitale del Regno da Zagabria a Banja Luka, nella Bosnia Nord-occidentale, già all’epoca, così come oggi, a maggioranza serba. Questo atto costituiva già un forte sintomo dell’insofferenza croata nei confronti dei serbi, benché in tale scelta abbia probabilmente contribuito anche la considerazione che Zagabria si trovasse in posizione troppo settentrionale e troppo scoperta rispetto alle Potenze del centro Europa.
Il nuovo Stato veniva ad essere composto dai seguenti territori: la Croazia stricto sensu, la Slavonia, la Dalmazia meridionale da Spalato a Ragusa e tre grandi isole dell’Adriatico; a questi vanno poi aggiunti i territori ceduti dall’esercito tedesco, e cioè l’intera Bosnia-Herzegovina e la Voivodina fino a Zeum, cittadina tedesca separata da Belgrado (occupata dai Tedeschi) solo dalla Sava. Questa Grande Croazia, pertanto, con i suoi 102.000 chilometri quadrati, vale a dire oltre i due quinti del vecchio territorio jugoslavo, veniva ad essere ben due volte più grande di ciò che restava della Serbia, ora sotto amministrazione militare tedesca. Questa, dal canto suo, ridotta all’incirca come prima delle guerre balcaniche (1912), era costituita dal Sangiaccato, dal Kossovo e dal Banato, regione nord-orientale che Hitler prevedeva di trasformare in provincia autonoma rumena da inglobare alla sfera d’influenza tedesca; la Moravia orientale, invece, regione storicamente serba, veniva assegnata alla Bulgaria.
Per quanto concerne la Slovenia, infine, questa fu direttamente annessa dai Paesi dell’Asse: a Nord la regione di Maribor (Marburg) fu annessa alla Germania, in parte alla regione della Carinzia, in parte a quella della Stiria; la parte meridionale, invece, fu annessa dall’Italia col trattato del 3 Luglio 1941. In seguito alla capitolazione dell’esercito italiano nel 1943, poi, queste regioni passarono direttamente sotto il controllo tedesco assieme all’Istria, comprese le città di Gorizia, Trieste, Fiume e Pola, oltre che della stessa Lubiana (Laibach): il Reich riusciva così a realizzare, seppur per pochi anni, il vecchio sogno di una Grande Germania dal Baltico all’Adriatico, superando perfino i confini dell’ex Impero Austro-Ungarico.

Secondo una statistica croata del '41, la composizione etnica del nuovo Stato croato risultava la seguente:
Croati 3.069.000 (50,78%);
Serbi 1.847.000 (30,56%);
Musulmani 717.000 (11,86%);
Altri 410.000 (6,80%).

Risulta evidente, pertanto, che il primo grande problema per le autorità del nuovo Stato fantoccio croato era l’elevato numero di Serbi, i quali erano peraltro fortemente concentrati in Bosnia-Herzegovina (44,6% della popolazione) e soprattutto nella Krajna (regione di Banja Luka) e nella Slavonia Occidentale, dove erano la maggioranza assoluta. Hitler consigliò al poglavnik (“duce” in serbo-croato) Ante Pavelic di risolvere il problema serbo così come egli aveva fatto con i polacchi, ossia con lo sterminio e con l’evacuazione. Sostenitore della superiorità razziale, Pavelic predispose il suo modello per la soluzione dei rapporti interetnici, che venne attuato sin da qualche giorno dopo l’instaurazione dell’Amministrazione ustascia. Il 30 Aprile 1941 veniva infatti pubblicato il “Regolamento giuridico per la protezione del sangue ariano e l’onore del popolo croato” che, tra le altre cose, proibiva il matrimonio tra ebrei, e tra persone di origine “non ariana”.
Per quanto concerne i serbi, tre giorni più tardi fu emanato un altro regolamento, che prevedeva la loro conversione religiosa forzata, e l’istituzione di tribunali nazionali speciali e di corti marziali. Il capo della diplomazia ustascia Milovan Zanic aveva precisato nel corso di un comizio che il nuovo stato doveva appartenere soltanto ai croati, e che pertanto “coloro che sono venuti qui devono ripartire. […] Questa deve essere la terra dei croati e di nessun altro, e noi, in quanto ustascia, agiremo in tutti i modi possibili affinché questa terra sia veramente croata, e la ripuliremo dai serbi che ci hanno messo in pericolo per tanti secoli, e che ci metterebbero di nuovo in pericolo alla prima occasione”. Nello stesso anno a Gospic, davanti al Parlamento ustascia, il Ministro del Culto e dell’Educazione Milo Budak espose esplicitamente la soluzione finale della questione serba: “Uccideremo un terzo dei serbi, ne faremo evacuare un altro terzo e convertiremo il rimanente terzo alla religione cattolica, facendoli così divenire croati”. Vennero così espulsi dai quartieri migliori delle città tutti i serbi, ed obbligati a portare sul retro del vestito una P (Pravoslavni – “Ortodosso”).
Il programma ustascia non tardò ad essere attuato: nel solo periodo da Aprile ad Agosto '41 furono registrati dalle autorità militari italiane ben 141 massacri di massa con una lista dettagliata di 46.286 serbi uccisi, mentre le vittime complessive nello stesso periodo, in larga misura di etnia serba, ammonterebbero ad oltre 80.000 unità. Le dimensioni dei massacri furono tali da stupire gli stessi italiani e tedeschi; lo stesso generale Von Horstenau, nel giugno del ’41, segnalò che “secondo rapporti degni di credibilità provenienti da numerosi osservatori civili e militari tedeschi, nel corso delle ultime settimane, nelle città e nelle campagne, gli ustascia sono diventati completamente pazzi”, mentre i tedeschi “con sei battaglioni di fanti non possono che osservare il furore cieco e sanguinoso degli ustascia”. Dall’estate del '41, poi, si cominciarono ad istituire dei campi di concentramento, secondo il modello nazista; i più grandi fra questi si trovavano a Jasenovac, Jadovno, Stara Gradiska e Jastrebarsko.
A Jasenovac, in particolare, vi fu di gran lunga il maggior numero di vittime. Furono creati quattro campi: i primi due entrarono in funzione a partire dall’estate del 1941 (uno riservato esclusivamente ai serbi ed agli ebrei, l’altro destinato invece a tutte le altre vittime), mentre il terzo ed il quarto vennero aperti nel successivo mese di novembre, in considerazione del crescente numero di prigionieri che vi venivano condotti. Secondo i dati della “Commissione nazionale croata per l’accertamento dei crimini degli occupanti e dei loro collaboratori”, riportati dalla storica Fikreta Jelic-Butic, e ripresi da Batakovic, il numero complessivo di prigionieri che persero la vita a Jasenovac è compreso tra i 500.000 ed i 600.000: per 360.000 circa di questi, è stato accertato il seppellimento nei cimiteri circostanti, su una superficie complessiva di 57.000 metri quadrati. Jelic-Butic conclude riportando, a sua volta, i dati contenuti in una brochure curata da un altro storico – Trivuncic – nel 1974: “Sulla base di indicatori di superficie e di testimonianze dei prigionieri sopravvissuti, la cifra di 700.000 prigionieri uccisi è molto realistica”.
La maggior parte delle vittime di Jasenovac è concentrata nel primo anno di attività dei campi, e soprattutto nei primi mesi. Secondo lo storico Edmond Paris, circa 200.000 persone vi hanno perso la vita nel biennio 1941-42; dalle relazioni dei responsabili dei campi presentate agli alti funzionari dello stato indipendente croato, si legge che “folle intere di bambini ebrei sono state bruciate vive nei forni dell’antica fornace, trasformati in forni crematori”; e che “nel corso di quest’anno abbiamo sgozzato a Jasenovac più uomini di quanti ne ha uccisi l’Impero Ottomano in cinque secoli di dominazione in Europa”. Per quanto concerne, in particolare, il numero di vittime serbe, in un rapporto inviato a Berlino nel febbraio del ’42, il generale Von Horstenau afferma che esso oscilli tra i 200.000 ed i 700.000, ed aggiunge che – a suo avviso – la cifra di 300.000 sia esatta. A questo proposito, Jelic-Butic ha fornito una lista dettagliata, redatta sulla base di documenti ustascia autentici, di interi villaggi serbi massacrati tra la fine del mese di aprile ed il mese di agosto ’41.
Gli alti dignitari ed il clero della Chiesa ortodossa erano tra le vittime preferite degli ustascia: sono stati assassinati i vescovi di Banja Luka, di Sarajevo (metropolita di Bosnia) e di Karlovac; il metropolita di Zagabria è stato deportato dopo essere stato torturato; nel complesso, si stima che siano stati uccisi circa 300 preti ortodossi. Non sono state risparmiate neanche le chiese ortodosse, la maggior parte delle quali fu distrutta o incendiata: nel corso dei quattro anni di potere ustascia, si stima che sull’intero territorio dello stato indipendente croato siano stati demoliti quasi 400 edifici tra chiese e monasteri ortodossi, mentre alcuni di quelli rimasti in piedi venivano utilizzati come scuderie, magazzini, mattatoi o semplicemente pubbliche latrine. A Jasenovac, per esempio, la chiesa ortodossa fu utilizzata come stalla, prima che venisse demolita. Non furono risparmiati neanche i cimiteri ortodossi, la maggior parte dei quali venne saccheggiata e danneggiata.
All’interno dello Stato indipendente croato il clero cattolico aveva stabilito una strettissima collaborazione con le autorità ustascia, in particolare con i vescovi di Sarajevo, Banja Luka, Hvar, Veglia, Spalato, Sebenico, Seni e Djakovo, oltre che con numerosi preti e frati, specialmente i francescani che pubblicamente partecipavano ai massacri da parte dei croati. A capo della gerarchia della Chiesa cattolica nello stato croato, in particolare, vi era l’arcivescovo di Zagabria Alojzije Stepinac, fervente sostenitore del regime di Pavelic, che contribuì attivamente allo sterminio dei serbi; in seguito, venne nominato cardinale da Pio XII nel 1952.
La Direzione dello Stato per il rinnovamento – “Settore religioso”, prevedeva la conversione di circa un milione di serbi alla religione cattolica: formalmente, veniva vietata la conversione forzata, ma di fatto la paura di rappresaglie indusse numerosi serbi a presentare domanda di conversione; e difatti, laddove le conversioni non avvenivano si susseguivano arresti e stermini. Jelic-Butic stima, sulla base dei dati disponibili, che vi siano state circa 240.000 conversioni forzate nel biennio '41-'42. Le azioni in vista delle conversioni al cattolicesimo erano state dirette inizialmente dal frate francescano Dionizije Jurcev, che in un pubblico discorso ha spiegato così il senso delle operazioni da lui condotte: “In questo Paese, non possono che vivere dei croati, perché questo Paese è croato, e coloro che non si vogliono convertire sappiamo noi che fine faranno. […] Oggi non è peccato nemmeno uccidere un bimbo di sette anni che voglia ostacolare il nostro movimento ustascia. […] Dimenticate gli abiti sacerdotali che indosso; sappiate che sono in grado, se necessario, di prendere un mitra e sterminare fin nella culla tutti coloro che si oppongono allo Stato ed alle autorità croate.”
Sulla base delle fonti qui riportate, dunque, è possibile stimare che durante l’arco dei quattro anni di regime ustascia, il numero delle vittime serbe sia compreso tra i 300.000 ed i 700.000; ma una stima più precisa è difficile farla poiché‚ non sono mai state compiute delle ricerche sistematiche in merito. D’altronde fino ad oggi le autorità politiche jugoslave hanno sempre cercato di minimizzare questo ricordo nel tentativo di attenuare gli odi nazionali in seno alla Repubblica; oggi, al contrario, le autorità serbe tendono a rispolverare quei tragici ricordi nel tentativo di fomentare il nazionalismo serbo lanciando così degli slogan abominevoli e provocando sempre di più la crescita di un desiderio di vendetta nei confronti della popolazione croata. Stime più precise, invece, sono state fatte per il numero di vittime ebree e zingare: rispettivamente, 35.000 e 25.000.
La resistenza delle popolazioni, non soltanto serbe, ma jugoslave in generale, all’aggressore nazista ed alla sua creatura, cioè lo Stato "indipendente" croato, fu promossa ed organizzata in parte dai cetnici, nostalgici nazionalisti della monarchia serba, ma soprattutto dal Partito Comunista Jugoslavo (PCJ), presente sin dagli anni '20 in tutte le regioni del Paese ed animato da un progetto globale sovrannazionale.
Sin dal 1923, il PCJ seguì, all’incirca, le evoluzioni teoriche del Partito Bolscevico sovietico e, conformemente alle tesi leniniste, assunse una posizione di principio rispetto all’autodeterminazione dei popoli, come affermò lo stesso Tito alla terza Conferenza del Partito nel Dicembre del '23. Il PCJ, infatti, sosteneva, almeno a livello teorico, il diritto di ogni popolo ad autoaffermarsi fino alla secessione, tanto più che fino agli inizi degli anni '30 non escludeva la separazione croata. Solo a partire dal '35, dopo l’adozione della tattica dei “fronti popolari” da parte del KOMINTERN, il PCJ cominciò a difendere l’idea jugoslava, negando quindi l’ipotesi della secessione. Già a partire dal '21 esso fu costretto ad agire in clandestinità, dato il ruolo dichiaratamente anti-sovietico della monarchia serba, e solo dopo vent’anni, in occasione dell’invasione tedesca, ebbe modo di uscire allo scoperto promuovendo ed organizzando la resistenza jugoslava. Grazie alla sua particolare identità, infatti, di unico partito panslavo, conformemente alla sua concezione di unità federale dello Stato, secondo cui le identità nazionali verrebbero rispettate, esso assunse il ruolo di principale protagonista nella lotta contro l’aggressore e, di conseguenza, nella creazione della seconda Jugoslavia; e difatti, già in occasione della V Conferenza del Partito a Zagabria nell’Ottobre del '40 l’intero gruppo dirigente assieme a Tito affermò la volontà di difendere ad ogni costo l’integrità del Paese e dei gruppi nazionali ad esso facenti parte. Nonostante quest’intesa di massima, tuttavia, anche in seno al Partito si registrarono delle tensioni tra gruppi nazionali, specialmente tra serbi e croati, ed in particolare a causa di certe tendenze filo-bulgare di alcuni comunisti macedoni; comunque sia queste frizioni non pregiudicarono mai l’orientamento fondamentale, e cioè la creazione di una seconda Jugoslavia federale, fondata sull’uguaglianza ed il rispetto delle nazionalità.
La resistenza jugoslava fu di fatto una vera e propria mobilitazione di massa che vide il sostegno e l’apporto di tutti i gruppi nazionali. Certo, senza l’ausilio delle forze alleate difficilmente le truppe tedesche sarebbero state sconfitte, ma è altrettanto vero che le chance di vittoria sarebbero state minime senza il decisivo contributo del PCJ ad organizzare importantissime misure sociali, specialmente nei territori liberati. Per usare le parole dello storico Djordjevic: “Se non si fosse congiunta la rivoluzione sociale alla questione nazionale, i popoli non sarebbero stati disposti a compiere quei terribili sacrifici provocati sia dalla lotta contro l’invasore, che da quella contro i difensori del vecchio ordine e del vecchio sistema di potere”.
Lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale fu pertanto del tutto anomala e particolare in Jugoslavia. Gli schieramenti in campo non furono mai ben definiti: mentre altrove si trattò di una guerra internazionale contro il folle espansionismo dei nazisti e dei loro alleati, qui si sovrappose alla guerra contro l’invasore una guerra civile, sia tra etnie diverse, sia tra comunisti ed anti-comunisti. Accanto alla guerra di resistenza contro l’invasore tedesco, infatti, vi erano almeno altri due livelli di scontro interno: un primo livello vedeva contrapposte l’etnia serba contro quella croata, o, per meglio dire, i filo-monarchici serbi nostalgici di una “Grande Serbia” da una parte (cetnici), e l’esercito spietato degli ustascia croati dall’altra, sostenitori a loro volta di una “Grande Croazia”; un secondo livello, poi, vedeva opposti i partigiani comunisti, in cui si mescolavano militanti di ogni etnia, contro gli stessi ustascia da un lato e gli stessi cetnici dall’altro. Il programma dei partigiani rispecchiava perfettamente quelli che erano i tre livelli di scontro indicati, coerentemente alla tattica frontista adottata: così, in effetti, tale programma prevedeva simultaneamente la liberazione dall’invasore nazista, l’abbattimento del capitalismo (ossia il precedente sistema di potere) e la creazione di un unico Stato nazionale nel quadro di una Federazione che rispettasse i singoli gruppi nazionali. Così, ad esempio, se da un lato buona parte degli abitanti della Croazia stricto sensu erano separatisti e molti di essi sostenevano lo Stato indipendente croato, d’altro canto molti croati dalmati e delle montagne dinariche combatterono a fianco dei partigiani comunisti serbi, svolgendo peraltro un ruolo decisivo nella liberazione dell’Istria e della Dalmazia.
[Da qui] Il sostegno massiccio della popolazione al PCJ portò quest’ultimo in una posizione di assoluto monopolio dello spazio politico durante e dopo la guerra: esso divenne infatti per la popolazione jugoslava il principale referente politico, cosa che non avvenne per le altre forze in quanto incapaci di stabilire una strategia globale di lotta antifascista. Così, detenendo il monopolio politico, nel dopoguerra fu conseguente il monopolio dello Stato; e, nonostante venisse adottata, come previsto, la forma federativa per tutelare il carattere multinazionale del Paese, questo monopolio si tradusse in breve in uno Stato centralizzato. Ben presto tutti i buoni propositi relativi al decentramento ed alla dittatura delle minoranze dovettero soccombere di fronte ad un centralismo del Partito che si tentò di giustificare in seguito affermando la necessità di contenere ed attenuare le tendenze centrifughe presenti in uno Stato multinazionale. Così, in breve tempo la produzione economica venne rigidamente pianificata, mentre il Partito veniva ad assumere un carattere onnipotente ed onnipresente su ogni sfera della vita sociale. Questa distorsione tra il diritto e la realtà fattuale, d’altronde, non deve stupire se si considera la formazione strettamente stalinista dei dirigenti del PCJ.
Il progetto di una Jugoslavia repubblicana e federativa da contrapporre al modello centro-unitarista della monarchia precedente alla guerra venne definitivamente adottato dal PCJ in occasione della seconda sessione del suo Consiglio, tenutosi a Jajce nel Novembre del '43. La monarchia lasciò così il suo posto ad una federazione di sei Repubbliche formate sulla base di un criterio storico-politico: alle storiche Repubbliche di Serbia, Croazia e Slovenia, infatti, venne altresì riconosciuto lo status di Repubbliche (e, in quanto tali, con diritto all’autodeterminazione delle rispettive nazionalità) alla Bosnia-Herzegovina, alla Macedonia ed al Montenegro. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli era così fortemente sancito che la Costituzione del '46 riconosceva a ciascuna Repubblica perfino il diritto alla secessione, purché si fosse trattato di un atto che avesse avuto il consenso di tutte le Repubbliche e non unilaterale: si trattava, evidentemente, di una clausola meramente formale, ma che stava comunque ad indicare il carattere fortemente federativo della nuova Repubblica.

 

 


 

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2007 La Fornace