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Storia

Tempesta di fuoco in montagna
di FABRIZIO SIMONCINI

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L'intento di questo scritto è di rendere le cupe atmosfere del passaggio del fronte sulle nostre montagne. Eventi che segnarono la memoria collettiva di intere vallate e la psicologia di numerose famiglie che subirono impotenti i momenti più tragici dell’ultima guerra, dall'8 settembre 1943 all'aprile del 1945. Su queste vicende, in particolare sulla strage di Marzabotto e tutto ciò che riguarda la vita della brigata partigiana Stella Rossa, è difficile aggiungere qualcosa di nuovo rispetto a quello che la memorialistica e le fonti d'archivio già hanno raccontato. Ma quello che ancora a mio avviso non è stato fatto è di fondere tutte le notizie orali e scritte, traendone un racconto che ricrei, per quanto possibile, lo spirito del tempo intrecciando i sentimenti della popolazione montanara, dei partigiani della Stella Rossa e dei militari germanici, e integrando il quotidiano con l'eccezionale di fatti terribili.


A Monte Sole c’è la guerriglia. Pochi a San Benedetto sanno che c’è una brigata di partigiani fortissima e assai numerosa che si batte a cavallo tra le valli del Setta e del Reno. La comanda Mario Musolesi detto Lupo. Nessuno, nemmeno il CLN (il Comitato di Liberazione Nazionale), avrebbe sperato possibile costituire, e far sopravvivere, una truppa di resistenza proprio nell’Appennino bolognese a ridosso della linea verde (così veniva anche chiamata la linea gotica), dove si acquartierava una forte presenza germanica per via degli snodi fondamentali di comunicazione quali la strada della Futa, la Porrettana, la linea ferroviaria direttissima, e comunque a ridosso del capoluogo Bologna, da cui spesso partivano spedizioni punitive fasciste contro popolazioni e persone renitenti al potere e alla legislazione di Salò. Terre, quelle della montagna bolognese, molto abitate e coltivate, per questo prive di quella boscaglia fitta e continua fondamentale per il ricovero e la fuga. All’inizio il gruppo è composto da pochi uomini per lo più operai e contadini, nonché giovani ragazzi sfuggiti alla leva fascista e alla Todt. Una organizzazione civile quest’ultima pensata per coordinare il lavoro coatto nella costruzione di fortificazioni militari e fornire sostegno logistico ai rifornimenti di materiale per il fronte. Ma l’armamento dei partigiani è scarso e di bassa qualità. Solo pochi fucili raccolti dai giovani amici di Lupo lungo le numerose gallerie della ferrovia. Armi queste, abbandonate dai militari italiani che cercavano rifugio subito dopo l’8 settembre, e che volentieri si disfacevano di quelle anticaglie che il regime fascista con grottesco clamore guerriero aveva loro fornito.
Aprile 1944. Sono le quattro del mattino e nel silenzio di una notte già prossima all’alba si diffonde nell'aria improvviso il rombo di un potente motore. L'atteso segnale era finalmente arrivato. Radio Londra aveva comunicato le parole fatidiche concordate con un agente inglese che si era innamorato di una ragazza che conosceva bene il comandante Lupo e che li aveva messi in contatto: “Mario si prepari”, e la sera successiva “Gli uccelli cantano”. I partigiani così avvisati avevano acceso grandi fuochi disposti in maniera tale da formare per chi osservava dall'alto un triangolo illuminato. Ed ecco piovere dal cielo 36 casse di metallo colme di vestiario e armi. Due giorni dopo secondo e ultimo lancio di materiale, recuperato in gran parte dai contadini del posto e consegnato nelle mani dei partigiani. Il morale è alto e la formazione sempre più agguerrita si fa di giorno in giorno più numerosa. Il Lupo veniva dall’esperienza della guerra d’Africa e aveva potuto toccare con mano la spropositata forza fatta di materiale bellico e di inesauribili rifornimenti a disposizione degli alleati, intuendo che lo scontro fra gli eserciti avrebbe avuto un sicuro vincitore. Non era dunque a digiuno di arte militare, tutt’altro, ma molti dei ragazzi che si univano alle sue fila non avevano mai sparato. Quando sarebbe stato necessario battersi contro le truppe di linea tedesche, addestrate ed esperte, i nodi sarebbero venuti dolorosamente al pettine.

I primi attacchi partigiani vengono messi in atto mediante sabotaggi contro la linea ferroviaria, il primo in particolare facendo saltare un treno carico di combustibile. Poi si cominciano a prendere di mira le caserme locali della Milizia fascista sparse nei paesi dell’Appennino bolognese. La rapidità con cui si assestano i colpi, il pressoché generale sostegno della popolazione e la scarsa convinzione dei soldati di leva di Salò, garantiscono con successo l’efficacia delle azioni. Ma la vita del partigiano, al di fuori dalle facili e immaginifiche rappresentazioni, è dura e densa di quotidiane insidie. La brigata deve spostarsi ogni giorno attraversando i crinali delle montagne con il pericolo continuo di delatori che facciano la spia rivelando la loro posizione. I ricoveri sono rari e in luoghi impervi, il freddo intenso e continua la fame che fedele li accompagna conficcata nello stomaco. La gente montanara e i contadini li aiutano, chi per convinzione e chi per forza, ma da mangiare ce n’è poco per tutti: i campi sono incolti, il fronte si avvicina, regna la paura.

La sopravvivenza si fa sempre più difficile e pericolosa anche nel paese di San Benedetto. Alcuni giovani giocano nel campo sportivo pieni di una vitalità primaverile. Senza che ci fosse stata quel giorno alcuna avvisaglia, proveniente dalla località che in dialetto chiamano la pianona, una lunga colonna di fanti della Wermacht sembra improvvisamente materializzarsi dal nulla accompagnata nella marcia dal sinistro rumore dei cingolati. La guerra s’affaccia anche nella vallata del Sambro con l’agro di un incubo. I ragazzi scappano presi da un istintivo timore lanciandosi in mezzo ai campi già alti di grano e lungo i fossi: cercano rifugio nelle case più vicine e danno l’allarme. Gli occhi del divertimento si dilatano in spavento.

Ciò è sintomatico di come la popolazione italiana, già al primo contatto, vedesse i tedeschi come il nemico, coloro da cui fuggire e di cui temere. Vent’anni di propaganda fascista, farcita di solenni e pompose dichiarazioni di fedeltà nei confronti dell’alleato germanico, evidentemente a ben poco erano serviti. Eppure c’era ancora chi si ricordava il passaggio di Hitler, insieme con Mussolini, lungo la ferrovia Direttissima da poco costruita e orgoglio della dittatura. Tutti in piedi alla stazione pronti a esibire il saluto romano in segno di montanara fede fascista al passaggio di quello splendido treno. E per giorni a seguire c’era chi giurava di aver visto Mussolini stesso o addirittura Hitler scambiare, con un rapido sguardo, l’assenso al proprio vigoroso saluto. Altri tempi. Ora la guerra senza più finzioni rivelava, anche a chi non aveva ancora perduto qualche parente in Russia o non aveva più notizie dei propri cari dispersi chissà dove in Africa o nei Balcani, il vero volto del fascismo e mostrava come l’imperialismo tanto agognato fosse in realtà un inganno costruito sopra un cumulo di macerie, lutti e sofferenze.

Eccola allora per la prima volta comparire in paese la minacciosa truppa tedesca con un sidecar che, tra lo sbigottimento generale, sbanda proprio in mezzo alla piazza a seguito delle proteste di un iroso cane montanaro che, sorpreso dalla foggia inusuale dei nuovi arrivati, gli abbaia contro con ben poca reverenza. “Ci ammazzano tutti adesso…” gridano alcuni, diffondendo il contagioso veleno della paura “e per colpa di un cane!” Ma il sidecar con un colpo di gas riprende il corso della strada e si avvia imperterrito verso il passo della Futa, seguito dal possente sferragliare dei panzer Tigre.

Maggio 1944. Le fortezze volanti solcano il cielo dell’Appennino bolognese e vanno a rovesciare il loro carico di distruzione nei pressi della località Vado, dove si trova il viadotto della ferrovia Direttissima, nella speranza di distruggerlo interrompendo così i rifornimenti per la prima linea. I lunghi convogli trasportano benzina, viveri e munizioni ai fanti della Wermacht schierati a ridosso delle armate alleate. Questi aerei così giganteschi da fare paura a volte volano talmente basso che si possono vedere le calotte dei piloti o degli aviatori che stanno alle mitragliere. Ma i tedeschi si sa sono tenaci testardi e ogni volta, nel giro di breve tempo, ricostruiscono il ponte e ripristinano il vitale collegamento, e così Vado deve prepararsi a un nuovo e distruttivo bombardamento. Nel frattempo durante i mesi invernali si sono aggregati alla brigata del Lupo, tra gli altri, anche una cinquantina di soldati sovietici provenienti da un gruppo tedesco della sussistenza di stanza alla Berleta di Marzabotto. Testimoni e attori dei devastanti combattimenti sul fronte russo, sanno che contro il loro popolo è in atto una vera e propria guerra di annientamento e sentono, come unico compito, quello di rinnovare la mortale lotta contro il nemico tedesco. Tra questi c’è il leggendario comandante Karaton che si batte senza mai risparmiarsi.

Non a caso all’inizio della primavera la brigata partigiana ha già raggiunto notevoli successi e comincia a preoccupare gli alti comandi tedeschi che vedono in essa un pericolo non solo per i continui disturbi alle truppe e ai rifornimenti, ma soprattutto in vista della non lontana ritirata verso la Germania. Viene allora deciso di annientare quei banditi che impunemente scorrazzano lungo le montagne dell’Appennino, facendo terra bruciata intorno a Monte Sole. Gli aerei ‘cicogna’ già da tempo hanno preso a sorvolare il territorio nella speranza di scorgere gli acquartieramenti partigiani. L’ordine di Lupo è quello di nascondersi appena il loro apparente innocuo rumore si diffonde per le valli, perché questi continui sorvoli non rappresentano certo un buon segno. La conferma di tale presentimento dovrà arrivare molto presto.

Mentre i temuti occhi delle cicogne volano alto studiando meticolosamente il terreno, i tedeschi hanno piazzato vicino a Cà di Bocchino diverse batterie dei micidiali cannoni 88, i quali, la mattina del 28 maggio, cominciano a sparare ad alzo zero sulle basi partigiane alla sinistra del Setta. È il segnale dell’attacco. Contemporaneamente le truppe germaniche si mettono in marcia dalla zona di Lama di Setta e procedono rapidamente in fila indiana verso il crinale per spezzare in due tronconi i partigiani e annientarli separatamente. I soldati ignari avanzano in campo aperto probabilmente perché, avendo sottovalutato la forza nemica, si sentono troppo sicuri della propria esperienza militare. Nascosti e dislocati nelle migliori postazioni i partigiani non vengono presi di sorpresa e cominciano a sparare, aiutandosi con le bombe a mano, coi fucili e con le famose mitragliatrici Breda. Faticano però ogni volta a respingere le continue ondate di assalti tedeschi, ma sono consapevoli che, nel caso non vi riescano, la brigata e i suoi uomini sono perduti. Quasi fosse un miracolo durante uno dei ripetuti e violenti scontri, si affacciano in cielo inconsapevoli le fortezze volanti che, nell’esercizio del loro rituale, si dirigono su Vado per scaricare l’ennesima dose di distruzione. Volano talmente basse che appaiono enormi quali sono e, appena scorti i militari tedeschi impegnati nello scontro, cominciano a mitragliarli tra le urla di giubilo dei partigiani che traggono nuovo vigore da quell’inaspettata carica di cavalleria aerea, riuscendo quasi di slancio a respingere l’ assalto. La sera stanchi, ma orgogliosi per quella insperata vittoria, tutti gli uomini si radunano a Cà Bregadè e, raccolte armi e salmerie, si incamminano nel buio della notte verso luoghi lontani ma sicuri.

Intanto a San Benedetto appare lungo la strada una fiammante vettura color malva che lasciandosi dietro una scia di polvere sembra quasi annunciare un evento inaudito. I paesani più informati raccontano che da essa scendesse, con fare imperioso ma del tutto naturale, il generale Hadler, carismatico comandante dei die grünen Teufel (i Diavoli verdi), il famoso corpo di paracadutisti tedeschi distintosi a Montecassino. Alto, giovanissimo con i suoi soli ventisette anni, ma già avvolto nell’aura della leggenda che sola si addice a chi ha fatto dello straordinario coraggio e della follia il proprio senso di vita. Non ha il tempo di scendere dall’automezzo che già è su di lui il tenente di stanza al comando: con una precipitosa corsa ha estratto l’accendino porgendo la vivida fiamma alla sigaretta di quel risoluto ragazzo.

Nonostante la inquietante presenza, e per giunta in pieno centro abitato, del comando della Wermacht, a San Benedetto la vita scorre quasi normalmente, come se la guerra fosse solo uno spiacevole ma passeggero inconveniente. Un gruppo di bambini accompagna i muli dei soldati tedeschi a bere alla fontana, in groppa e felici per un tale inaspettato divertimento. Due bambine invece, Franca e Gilda – quest'ultima, figlia del sacrestano, ha le chiavi del campanile – appostatesi su un finestrone, dopo aver imparato la classica parolaccia tedesca, sono decise a lanciare l’epiteto al passaggio dei militari. Appena i soldati giungono sotto di loro si affacciano e urlano: “Scheiße (merde)!” Non hanno il tempo di vedere la temuta reazione che sopravviene un immediato quanto disperato terrore di essere di lì a poco fucilate sul posto. E allora, chiuse nel campanile per lunghe e interminabili ore, attendono l'inevitabile destino. A sera inoltrata, quando già le madri cominciano a preoccuparsi chiedendosi dove siano finite, le due piccole patriote si decidono, ancora tremanti per lo spavento, ad abbandonare il rifugio del tutto convinte che mai e poi mai avrebbero ritentato una tal sortita. Mentre gli stanchi soldati tedeschi riflettono su che senso abbia combattere per una causa che porta pure i bambini a sentirli come presenze ostili.

Giornate, queste, apparentemente simili alle tante che la millenaria civiltà contadina riserva da secoli, sempre identiche a se stesse: ma il respiro del fronte che si avvicina inquieta e seduce al contempo. La paura di chi teme bombardamenti e scontri si mescola al desiderio di vedere al più presto le facce innocenti dei giovani militari americani, immagini sognate di una agognata liberazione da troppo tempo attesa.

Il pomeriggio del 22 settembre 1944 a San Benedetto splende un sole vivido e caldo. Gli echi del fronte sono sempre e angosciosamente più vicini. I bambini e i ragazzi incontenibili nella loro voglia di esperienze e di indipendenza dai grandi, quasi incuranti di quella guerra così rischiosa ma inconsciamente attraente, sono in giro per campi e aie a cercar noci, frutta e per giochi. Un attimo e brilla in cielo una luce folgorante. È il raggiante ma cupo segnale di un attacco aereo americano che ha nel suo mirino probabilmente il comando tedesco e il ponte. I più esperti del paese, che hanno fatto la prima ma non ultima guerra, riconoscono l’avvertimento e gli inviti urlati, a nascondersi nei rifugi o nelle cantine delle case, si trasformano ben presto in un vociare confuso che sfocia nel panico. È un attimo e il ronzio sottile di uno, due poi tre cacciabombardieri riempie con un sibilo l’aria che pare ribollire. I caccia fanno un primo giro intorno al paese, quasi per prendere bene i tempi e la mira ai bersagli, e danno così inizio alla tempesta di fuoco. I tedeschi – da tempo hanno poche armi e di contraerea nemmeno a parlarne – subiscono passivamente l’atto ostile di un nemico ormai invincibile. Il rumore degli aerei si allontana, ma non la paura che sembra avvolgere tutto e tutti, insieme a un denso polverone che invade ogni anfratto del paese. Giacciono straziati con le membra sparse ovunque alcuni corpi di militari tedeschi, ma il comando non è stato colpito. Le voci confuse e gli ordini nel duro idioma germanico si mescolano al dialetto montanaro: quasi cantilene di dolore che cercano parenti figli amici. Molti non rispondono alle chiamate e si teme siano rimasti sepolti sotto le macerie. Tra i civili quattro non risponderanno più all’appello. Si teme anche per due bambini, Arnaldo e Gianna. Miracolosamente, dopo un lungo lavoro di scavo, vengono ripescati feriti e piangenti tra le rovine. La morte più straziante tocca a Iotti, il quale, cercando – per proteggere le figliolette – di tenere su con la coscia una serranda cadutagli addosso per lo spostamento d’aria provocato dalle esplosioni, si mozza l’arteria femorale e abbandona la vita in un inarrestabile lago di sangue tra le braccia e la disperazione dei presenti.

Il primo vero assaggio dell’avvicinarsi del fronte ha gettato nella paura le molte famiglie che non hanno sistemazioni adeguate per sopportare senza rischio il fuoco incombente. Non è così per chi in paese ha solidi rifugi allestiti nelle cantine tra le fondamenta dei palazzi e che, sentendosi sicuro dal pericolo, decide di restare. Gli altri invece concludono che sia meglio, e senza indugio, cercare ricovero altrove, lontani almeno, così si pensa, da bombardamenti o da drappelli impazziti di militari del Reich assetati di vendetta. Qualche mese addietro infatti è stato ordinato dal comando tedesco un rastrellamento degli uomini abili al lavoro. Solo la prontezza di Angiolino – dipendente comunale tuttofare, che paga di sua tasca i sorveglianti – è riuscita salvarne alcuni dalla partenza verso una destinazione ignota.

La meta per chi lascia il paese è assai vaga. Lungo il viaggio la comitiva viene più volte rifiutata, i rifugi sono pochi e stracolmi. Quando si vedono arrivare un numero così elevato di sfollati, i proprietari del posto fanno capire che sono indesiderati, e nemmeno antiche e consolidate amicizie bastano a commuovere. Finalmente il gruppo arriva al Molinuccio, a pochi chilometri da San Benedetto, dove resiste un antico mulino incassato nella valle, ben protetto dal tiro dei cannoni, che risulta fortunatamente libero e che viene reso immediatamente accogliente dal lavoro delle donne. Qui la comitiva si ferma e si prepara a sopportare le ultime drammatiche vicissitudini che la linea del fronte saprà loro riservare ancora. Finché il quattro ottobre, in una mattina bianca di nebbia, si affacceranno timidi, ma a mitra spianati, i primi soldati americani chiedendo in tedesco, per ingannare eventuali presenze ostili, a quelli dentro il mulino: “Kommt Kamerad, kommt! (vieni camerata, vieni!)” e una voce nascosta, ma traboccante di felicità, risponde: “Noi paisà, qui no Kamerad!”

È la sera del 28 settembre. Lupo e i suoi più stretti fedelissimi decidono di passare la notte dalle proprie donne, dando una festa del tutto speciale. La guerra sembra finita e la linea del fronte si trova ormai a qualche chilometro da Monte Sole. Giungono sempre più spesso i racconti dei contadini che nelle loro case vedono la mattina arrivare le esauste pattuglie tedesche, la sera invece quelle inglesi. Nella truppa partigiana vige una sorta di stanchezza e rilassatezza che è preludio al convincimento che finalmente quella vita di sacrifici e sofferenze possa essere vicina alla conclusione. Le discussioni, sempre molto accese, vertono da un lato intorno all’idea di scendere verso Bologna per contribuire alla sua liberazione, dall’altro alla proposta di aspettare sul posto l’arrivo degli anglo-americani contribuendo a liberare da trionfatori i luoghi natii. La Stella Rossa infatti, a differenza di altre brigate partigiane, è un gruppo fortemente radicato nel proprio territorio per il fatto che il nucleo fondativo della stessa è costituito, per la gran parte, da persone che in quei luoghi sono cresciute. Non c’è comunque molto altro da fare perché le munizioni a disposizione del gruppo sono risicate e possono permettere appena una mezza giornata di difesa da un eventuale attacco. Non ci sono stati più lanci di armi e munizioni da quelli avvenuti a maggio e i continui scontri hanno ridotto di molto l’operatività bellica. Per di più gran parte dei giovani ragazzi, che per sfuggire alla leva fascista si sono aggregati alla Stella Rossa, sono privi di armamento. Anche gli informatori di Lupo e dei comandanti della brigata, che si trovavano infiltrati nei ranghi della Milizia fascista locale, si sono sganciati rientrando così tra le file amiche in vista della imminente liberazione e per questo nessuno d’ora in avanti conoscerà più con certezza i piani e gli spostamenti dei militari nazifascisti.

E la notte allora, quella drammatica notte, scivola via verso l’alba senza che ci sia il minimo sentore di ciò che sta per accadere. Eppure giorni addietro voci inquietanti e incontrollate erano arrivate fino ai partigiani della Stella Rossa. “Verranno i tedeschi presto, sì i tedeschi… ma quelli cattivi.” si vociferava. E infatti la truppa del demonio è da pochi giorni già acquartierata in quel di Rioveggio in attesa di compiere il lavoro per cui ormai sono ampiamente specializzati: spazzare via le bande dai luoghi in cui queste possano minacciare le vie per la ritirata delle divisioni del Führer.

Il corpo scelto Waffen-SS di Himmler ha già lasciato sulla sua strada una lunga scia di sangue, fatta in gran parte di stragi compiute ai danni di civili inermi, soprattutto di bambini, donne e anziani accusati sommariamente di essere fiancheggiatori dei partigiani. Non c’è pietà o giustificazione per coloro che finiscono alla loro mercé. Questa famigerata soldatesca appartiene alla 16a divisione corazzata granatieri Reichsführer-SS, e al loro interno si distingue per la particolare ferocia il reparto esploratori comandato dall’efferato maggiore Walter Reder. Queste truppe provengono e si sono temprate nella esperienza della campagna di Russia, dove l’annientamento dei civili fa parte di un preciso piano ideologico. L’invio di questi militari significa, per coloro che li comandano, carta bianca sulle modalità di azione e garanzia di impunità. La strategia per annientare le bande consiste nell’agire di sorpresa, senza dare al nemico alcuna possibilità di fuga, accerchiandolo e servendosi di persone della Milizia fascista che sappiano indicare senza indugio il terreno su cui muoversi, segnalando i luoghi dove è certa la presenza partigiana. Sono dunque italiane le spie e coloro che fanno da guida, tutti inquadrati nei contingenti che portano la camicia nera e che danno le coordinate per l’efficacia della mattanza a venire.

Le operazioni di accerchiamento e rastrellamento cominciano quando ancora fa buio, verso le cinque della mattina. Dopo pochi minuti di cammino i reparti tedeschi già intravedono i primi gruppi di case. Si avvicinano lentamente ma certi dell’effetto sorpresa, entrano sfondando le porte e sparano. Molti soldati sanno che lì non troveranno alcun partigiano, ma questo conta ben poco: si eseguono gli ordini senza discutere e con ferocia. Alcuni sono ubriachi, altri drogati da misture speciali volte a scardinare quel briciolo di senso di colpa che in essi ancora rischierebbe di manifestarsi. Si levano forti le grida delle madri e dei bambini terrorizzati. “Raus! Raus! ” urlano, accompagnando il comando con il calcio dei fucili sulle spalle e sulla nuche dei malcapitati. Gli anziani vengono subito freddati sul posto, troppo lenti a scendere nell’aia. Non si può dare alcun vantaggio ai partigiani che, probabilmente avvertiti dal quel devastante trambusto, stanno già cercando di eludere la mortale imboscata con l’unica possibilità di salvezza che si chiama freddezza e velocità. Ma in pochi ne sono provvisti. I giovani ragazzi che sono appostati nei punti nevralgici delle zone intorno a Monte Sole sono presto sopraffatti dalla paura, che diventa caos e fuga senza speranza. Altri invece, tra cui il comandante sovietico Karaton, si difendono e riescono per molto tempo a tenere le posizioni. Poi la scarsezza delle munizioni li costringe a ritirarsi, alcuni verso la cima di Monte Sole altri verso Monte Caprara in vista dell’ultima difesa. I nazisti, avvertiti della strategia della Stella Rossa, cominciano a bombardare con armi pesanti le due cime, a colpi di mortaio e con i cannoni posizionati a Cà di Bocchino. Nel frattempo la strage di inermi si consuma, trasformando in orrore ogni luogo che viene toccato dalla violenza nazista. L’incredulità di quei poveri contadini si muta presto in panico per la certezza della imminente fine. Molti vengono rinchiusi nel granaio, cui dopo un lancio di granate viene appiccato il fuoco. Tutt’intorno echeggiano grida disumane mai avvertite in quelle montagne. Urla di persone che stanno per morire, di altre che vedono giacere morti i propri figli e le proprie madri, urla che si confondono con i muggiti lanciati dagli animali che bruciano imprigionati dentro le stalle e i fienili.

Alcuni bambini, che erano riusciti a fuggire spinti dai genitori attraverso le finestre del deposito, vengono catturati e impalati vivi sui bastoni che sorreggono i filari della vigna. I commilitoni SS si muovono con grande dimestichezza, avvezzi a tradurre già da tempo in cruda pratica le direttive di sterminio. Il puzzo di alcool che emanano fa capire in quale stato agiscano. In pochi secondi si leva un fetore acre di liquore e carne bruciata che stordisce. Le urla sembrano quasi raccolte e ovattate dal crepitio dei granai e delle abitazioni in fiamme, mentre sulle montagne antistanti divampano nuovi fuochi come se da ciascun borgo si volesse annunciare l’imminente festa di paese. Alcune ragazze che cercavano di fuggire tra i boschi vengono raggiunte e massacrate. Una di queste è incinta, viene squartata e il feto gettato tra gli alberi. La mattanza è in pieno svolgimento. Il sole resta ancora velato tra le nubi e la nebbia. I nazisti delle Waffen-SS, supportati dai micidiali lanciafiamme, avanzano in fila indiana pronti a disporsi per l’accerchiamento quando trovano resistenza o semplici abitazioni civili. Si muovono in direzione concentrica, essendo partiti dai quattro punti cardinali intorno a Monte Sole e, mano a mano che la stretta si chiude, la scia di morte diventa indicibile.

Il 5 ottobre, dopo svariati giorni di lucida follia si conteranno tra i civili 770 morti, di cui 216 bambini, 316 donne e 142 persone anziane sopra i sessant’anni. Fra i partigiani molti riusciranno a fuggire lungo i crinali, la notte successiva all’attacco, disperdendosi negli anfratti delle montagne tra mille peripezie fatte di terrore, scontri, fame, morti. Avversità terminate infine, per chi ce la fece, solo con l’agognata liberazione. Né Lupo né Karaton, e molti altri della brigata Stella Rossa, poterono vedere la luce del 25 aprile 1945.
Gennaio 2007. A La Spezia presso Tribunale militare si conclude il processo intentato contro i militari SS ancora in vita con dieci condanne e cinque assoluzioni. I familiari e gli abitanti di Monzuno, Grizzana e Marzabotto giunti fino al capoluogo ligure ascoltano muti e immersi in quei ricordi. C’è chi rimane esternamente impassibile, chi invece non trattiene le lacrime. Un processo che si sarebbe dovuto svolgere negli anni ’50, quando c’erano già tutti gli elementi e le persone da processare in vita e invece… Invece prevalse allora l’esigenza politica di non creare problemi alla nascente Repubblica Federale Tedesca, che rappresentava per gli USA, nello scacchiere geopolitico della guerra fredda, una pedina fondamentale. E poi si sa l’Italia del Re e di Mussolini quella guerra l’aveva perduta e l’idea di mettere in piedi una Norimberga tutta italiana non pareva convenire a coloro che avevano riciclato persone e idee del vecchio regime in funzione anticomunista. In pochi protestarono per il mancato processo e i tanti e convergenti interessi del Governo, dei Servizi segreti alleati e della Chiesa confluirono in un ‘non possumus’ procedere contro i criminali di quella drammatica strage. L’armadio, contenente i preliminari delle indagini con gli atti di accusa supportati da fatti e nomi circostanziati, venne voltato e messo simbolicamente a tacere contro il muro, sancendo per le vittime civili di Marzabotto un nuovo e vergognoso martirio.

BIBLIOGRAFIA
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-Kilnkhammer L., Zwischen Bundnis und Besatzung. Das nationalsozialistische
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-Kilnkhammer L., Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), trad.
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-Moscioni Negri C., Linea Gotica, Bologna, il Mulino, 2006.
-Simoncini A., Autunno 1944: passa il fronte, San Benedetto V.S., Edizioni dei
Cercanti, 1995.

FONTI ORALI
Si ringraziano inoltre per le testimonianze orali e raccolte in video di Massimo Quarenghi, Adriano e Franca Simoncini.

 

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2007 La Fornace