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Politica

10.12.07
L'annoso dibattito sul sistema elettorale italiano, tra precari equilibri democratici e "truffaldine" tentazioni plebiscitarie
di ANDREA MANGANARO


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L'Italia, si sa, è un classico esempio di democrazia di tipo consensuale, secondo la celebre classificazione elaborata dal politologo Arend Lijphart, trattandosi di un Paese, al pari di molti altri dell'Europa continentale, caratterizzato da una società culturalmente e politicamente non omogenea.1 In questi Paesi, normalmente il governo maggioritario si rivela non soltanto non adeguato, ma persino pericoloso poiché le minoranze escluse dal governo potrebbero percepirsi discriminate e divenire anti-sistema. Per questo motivo, le democrazie consensuali hanno normalmente almeno alcune delle seguenti caratteristiche: a) governi sostenuti da maggioranze piuttosto ampie, formate da coalizioni comprendenti diverse forze del sistema partitico; b) separazione formale ed informale del potere legislativo da quello esecutivo; c) bicameralismo (più o meno simmetrico); d) sistema partitico caratterizzato da molte forze politiche (multipartitismo) e multidimensionale (cioè caratterizzato da diverse fratture: etniche, di classe, religiose, linguistiche, ecc.); e) sistema elettorale di tipo proporzionale; f) federalismo territoriale e/o marcato decentramento politico; g) costituzione scritta e potere di veto delle minoranze su eventuali modifiche; h) forme di partecipazione democratica diretta (referendum, leggi di iniziativa popolare, ecc.).

Se nei Paesi più piccoli il modello di democrazia consensuale ha storicamente tenuto, quelli più grandi, viceversa, sono stati attraversati da esperienze di tipo autoritario: è il caso, notoriamente, dell'Italia, della Spagna, e della Germania. La democrazia consensuale richiede, infatti, mediazioni e tempi più lunghi, e processi decisionali fortemente formalizzati, a tutela delle minoranze. Questo ha spesso provocato, dunque, forte instabilità politica e maggiore difficoltà nel mantenimento del consenso nei confronti di governi talvolta o spesso costretti all'inazione. In questi Paesi, quindi, è più facile che emergano nelle fasi di crisi forze anti-sistema autoritarie, poco disposte alla mediazione, e pronte a proporre la scorciatoia populista in luogo delle classiche “cinghie di trasmissione” partitiche, normalmente in grado di garantire una democratica partecipazione politica, sebbene oggi queste forme di partecipazione siano in diversi Paesi in crisi da almeno un paio di decenni (in pratica, dall'entrata in crisi del cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano”).

Rispetto a queste caratteristiche generali delle democrazie europee di tipo consensuale, il caso italiano è stato caratterizzato per ben quarant'anni da una evidente anomalia: il persistere sistematico all'opposizione, per la sua natura ideologica e la sua collocazione internazionale, della seconda forza politica del sistema partitico, ovvero il Partito Comunista Italiano (PCI) che, come noto, arrivò a raccogliere nel momento di sua massima espansione oltre un terzo dei consensi espressi. Soltanto la priorità strategica assegnata dal PCI alla difesa dell'ordinamento democratico sin dalla svolta di Salerno (ma anche il proliferare di pratiche spartitorie e consociative soprattutto nel corso degli anni '80) poté garantire la tenuta di una democrazia di tipo consensuale nonostante la sistematica collocazione all'opposizione di una delle sue principali formazioni politiche. In effetti, tale esclusione del PCI dall'area di governo (congiuntamente alla formale esclusione del partito erede e culturale dell'ultima fase del regime fascista, ed in particolare della famigerata Repubblica di Salò, ovvero il MSI), è stata alla base dell'estremprecarietà dei governi che ha sempre caratterizzato l'Italia repubblicana, poiché non ha mai potuto aver luogo l'alternarsi al governo ed all'opposizione di partiti e schieramenti diversi. Così, al calo progressivo dei consensi della DC per effetto del processo di secolarizzazione attraversato anche dalla società italiana, il partito di maggioranza relativa si è trovato costretto a coinvolgere sistematicamente nell'area di governo tutte le forze politiche del sistema partitico al di fuori del PCI (con l'importante eccezione rappresentata dal periodo del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”) e dell'anticostituzionale MSI (benché anche in questo caso un tentativo sia stato fatto, come noto, nel '60 con il governo Tambroni), rendendo quindi impraticabile qualsiasi alternativa. Questa condizione del sistema politico italiano è stata brillantemente definita come “bipartitismo i”. 2

Già in passato, peraltro, la storia unitaria italiana era stata caratterizzata dall'alternarsi di due tipi di governo: uno a vocazione “democratica consensuale”, ed uno a vocazione “carismatica autoritaria”. Così, ad esempio, al “trasformismo storico”, ovvero all'alleanza tra destra e sinistra storica che caratterizzò i governi Depretis negli anni '70 ed '80 dell'800, subentrò l'autoritario governo Crispi (dal 1887 al 1896, con qualche interruzione), ovvero l'uomo forte che l'intero ceto notabilare aveva voluto per contenere e reprimere i movimenti e partiti di massa nascenti (repubblicani, radicali, socialisti ed anarchici), che in quegli anni stavano divenendo sempre più forti, e per dar vita all'imperialismo (straccione) italiano. Allo stesso modo, ai governi Crispi (ed alle sue appendici reazionarie, ovvero i governi Sonnino e Pelloux, quello che mandò il famigerato ufficiale Bava Beccaris a sparare contro la folla a Milano che manifestava contro la crescita dei prezzi dei beni di prima necessità), subentrarono i governi Zanardelli e Giolitti, che adottarono riforme progressiste e per la prima volta allargarono l'area di governo ad alcuni esponenti del socialismo riformista (nel senso originale del termine). Alla fine della Grande Guerra, i partiti di massa entrarono in misura cospicua nel Parlamento Italiano, e le elezioni politiche del '19 furono le prime a suffragio universale maschile, e con sistema proporzionale; tuttavia, il vecchio ceto liberale – benché ancora maggioritario a livello parlamentare – non poteva essere più in grado di coinvolgere, di far partecipare e di ottenere il consenso delle masse mobilitate dalla guerra stessa, e precipitosamente scese nell'arena politica dopo la “vittoria mutilata”. Furono queste le premesse che permisero l'ascesa di quella nuova e tragica forma di governo autoritario carismatico, che prese il nome di “fascismo”: il partito unico come cinghia di trasmissione alimentata dal carisma di un uomo solo al comando, ed in grado (anche se non sempre con successo) di mobilitare permanentemente la società verso lo Stato.

Nella fase di instaurazione della dittatura fascista, un ruolo importante fu giocato proprio dalla prima manipolazione del meccanismo elettorale, quello che potremmo definire come “il peccato originale” per ciò che concerne la rappresentazione politica di massa, e che non a caso trent'anni più tardi fu esplicitamente riconosciuta come “truffa”. Si sta parlando, naturalmente, della legge Acerbo del '23, che prevedeva l'assegnazione dei due terzi dei seggi all'assemblea parlamentare alla lista che avrebbe ottenuto la maggioranza dei voti, purché almeno il 25% di essi. Il partito fascista ottenne così i due terzi dei seggi in occasione delle elezioni del '24, pur contrassegnate da comprovati brogli la cui denuncia, come noto, costò la vita al deputato socialista Giacomo Matteotti, assassinato per questo motivo dalla barbarie fascista. Dopo un'iniziale sbandamento del governo Mussolini, nel '25 l'adozione delle cosiddette “leggi fascistissime” diede inizio alla dittatura vera e propria, con l'esautorazione di fatto del Parlamento e la messa fuori legge dei partiti e dei sindacati.

Con la fine del fascismo e l'instaurazione della democrazia al termine della seconda guerra mondiale, la rappresentanza elettorale, per la prima volta estesa anche alle donne, non poteva che essere di tipo proporzionale. Pur con l'anomalia di cui s'è detto, ovvero la sistematica collocazione all'opposizione del PCI, si instaurò in Italia una democrazia di tipo consensuale, resa tale – si ricorda – non soltanto per il progressivo allargamento dell'area di governo delle forze politiche a sinistra della DC, ma anche per le pratiche consociative di cui s'è detto. Eppure, già nel '53 le difficoltà della DC nella formazione di maggioranze di governo ampie e stabili indusse il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a presentare una legge che prevedeva l'assegnazione del 65% dei seggi al partito od alla coalizione che avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti. Approvata all'ultimo momento, in violazione dei regolamenti delle due camere (specie al Senato), si trattava di una legge che evocava inevitabilmente quella Acerbo, sia pure con la sostanziale differenza che nel '53 il premio di maggioranza sarebbe scattato soltanto previo l'ottenimento della maggioranza assoluta dei voti. Definita subito “legge truffa” dalle opposizioni, si opposero a questa legge anche minoranze liberali, repubblicane e socialdemocratiche, evidentemente contrarie ad una legge che molto probabilmente avrebbe assegnato la maggioranza assoluta dei seggi alla DC. La defezione di queste minoranze non fece scattare, sia pure per una manciata di voti (circa lo 0,3%), il premio di maggioranza, ciò che segnò la fine politica di De Gasperi.

All'indomani del collasso del blocco sovietico, che inevitabilmente contribuì al collasso del sistema partitico italiano, l'opinione pubblica e le forze politiche sopravvissute furono pressoché unanimi nel ritenere, ingenuamente o in malafede, che la precarietà dei governi della “Prima Repubblica” dipendesse dal sistema elettorale proporzionale. Si sosteneva, in pratica, che alla base della breve durata degli esecutivi italiani (se ne susseguirono ben 44 nei 46 anni compresi tra il 1948 ed il 1994) vi fosse quella frammentazione partitica che non avrebbe permesso di formare maggioranze stabili al partito di maggioranza relativa (la DC), costringendo quest'ultimo a sottostare alle richieste dei piccoli ma petulanti alleati di coalizione. Quest'affermazione, in realtà, può essere facilmente smentita considerando che il numero medio di partiti presenti nel sistema partitico italiano è sempre stato in linea, e talvolta perfino inferiore, rispetto a quello medio europeo: infatti, il numero di partiti mediamente presenti nel sistema partitico italiano, calcolato con il classico indice di Laakso e Taagepera,3 è stato pari a 3,5 tra gli anni '70 ed '80 (e più basso ancora in precedenza): 3,32 nel '76, 3,45 nel '79, 4,02 nell'83; si tratta di un livello allineato e persino leggermente inferiore a quello medio europeo, pari a 4,16 nella seconda metà degli anni '80. Inoltre, quasi tutte le democrazie europee hanno adottato, così come oggi, un sistema elettorale di tipo proporzionale (fanno eccezione soltanto la Gran Bretagna, da sempre, e la Francia dal '58), senza che questo abbia necessariamente comportato instabilità politica.

Naturalmente, le forze politiche vecchie e nuove che non furono travolte da quel ciclone che prese il nome di “Tangentopoli” pensarono di poter ottenere una nuova legittimazione attraverso la messa al bando del sistema proporzionale e l'introduzione di un sistema elettorale di tipo maggioritario tramite un referendum dal chiaro esito plebiscitario, e che fu caricato di un forte significato catartico per le sorti della democrazia italiana. In realtà, come si è detto, la legge elettorale maggioritaria era inadatta per una tipica democrazia consensuale, in un Paese storicamente e tradizionalmente caratterizzato da molteplici culture politiche e molteplici interessi: si è trattato, infatti, di imporre al sistema politico italiano una soluzione tecnica, ovvero un bipolarismo coatto, che mal si attagliava ai problemi politici italiani, e che in quanto tali avrebbero necessitato di soluzioni politiche, ben più difficili di un semplice plebiscito o di qualche espediente di ingegneria istituzionale. Invece, come purtroppo spesso è accaduto in passato nei momenti di discontinuità, come si è visto, si finì per gettare via gli elementi di garanzia peculiari della democrazia consensuale: con i partiti corrotti, in particolare, furono liquidati (e non sostituiti) gli incancreniti corpi intermedi in grado di veicolare la partecipazione democratica dalla società civile al potere politico, col prevedibile risultato di aprire il campo ad ogni tipo di movimento politico rozzo, a vocazione leaderistica, carismatica, personalistica ed autoritaria cui sarebbero state riconosciute virtù salvifiche e catartiche: dalla xenofoba Lega Nord, che già da alcuni anni imperversava nel sistema politico italiano, al MSI, all'epoca ancora in larga misura dichiaratamente fascista, fino alla celebre formazione politica creata in pochi mesi su misura da e per l'uomo nuovo: “Forza Italia”, del cavaliere (del lavoro) Silvio Berlusconi, più spesso chiamato semplicemente “il Cavaliere”.

Sulla base di questa breve ricostruzione storica, dunque, risulta tremendamente facile riconoscere nella crisi della lunga fase di democrazia consensuale italiana l'avvicendamento di una fase di governi definiti di tipo “carismatico autoritario”. Ed anche se i governi Berlusconi non hanno nemmeno minacciato di sospendere le garanzie democratiche, appare tuttavia evidente che le prassi di governo degli ultimi quindici anni hanno sostanzialmente modificato la costituzione materiale del Paese, introducendo di fatto una sorta di premierato spurio, con una predominanza dell'esecutivo sul legislativo ed un'indiscutibile personalizzazione della politica dovuta alla legittimazione di tipo carismatico della leadership.4 Anche sul piano sociale, inoltre, gli esecutivi degli ultimi quindici anni, con la sola legittimazione proveniente dall'Europa e dalla necessità di mettere in ordine nei conti pubblici, ponendo fine al cosiddetto “compromesso fordista-keynesiano”, hanno progressivamente ridotto la protezione sociale, contribuendo così a dare forza – così come è avvenuto in molti altri Paesi europei – alle formazioni politiche di tipo populista, xenofobe ed anti-democratiche.5

La legge elettorale scaturita dal referendum del '93, come noto, fu redatta da una commissione parlamentare presieduta dal democristiano Mattarella, che reintrodusse il sistema maggioritario (con collegi uninominali) per i tre quarti dei seggi delle due camere, e salvaguardando una quota proporzionale, corrispondente al restante quarto di seggi. Naturalmente, la nuova legge si rivelò ben presto inadeguata a risolvere i problemi politici legati alla stabilità degli esecutivi: infatti, se è vero che il sistema maggioritario fornisce una maggioranza più larga alla coalizione che vince, è anche vero, però, che per vincere la coalizione deve essere quanto più ampia possibile, coinvolgendo dunque quante più forze politiche è possibile. Indubbiamente, con il sistema maggioritario le coalizioni di governo vengono individuate prima delle elezioni, evitando così quei lunghi rituali (le consultazioni del Capo dello Stato con le segreterie politiche, e le negoziazioni tra queste ultime) che in passato caratterizzavano il processo di formazione di una maggioranza dopo le elezioni politiche. Tuttavia, la presenza di piccole e numerose formazioni all'interno di ciascuna coalizione hanno reso queste ultime instabili tanto quanto (se non di più) avveniva con il sistema proporzionale: e non a caso, infatti, l'indice di Laakso e Taagepera calcolato nella camera dei deputati uscita, ad esempio, dalle elezioni del '96 segnala la presenza di ben 6,18 partiti, contro una media europea pari al 4,09 in quegli anni.

Ma i problemi legati all'introduzione del sistema maggioritario in una democrazia consensuale quale è l'Italia non finiscono qui: in caso di crisi di governo, infatti, la Costituzione italiana assegna il pallino della situazione al Presidente della Repubblica (così come normalmente avviene nella maggior parte delle democrazie), che rimane così il vero artefice della risoluzione delle crisi politiche, così come previsto dal combinato disposto degli articoli 88 (facoltà di sciogliere anticipatamente le camere, sentiti i due presidenti delle camere stesse) e 92 (nomina del presidente del consiglio) della Costituzione. Tuttavia, il sistema maggioritario rende fisiologica l'indicazione preventiva delle coalizioni e del candidato alla presidenza del consiglio: così, pur essendo state formalmente ed anche sostanzialmente rispettate le competenze del Capo dello Stato, negli ultimi quindici anni la costituzione materiale si è trasformata nel senso di ridurre tali competenze. Ad esempio, il cosiddetto “ribaltone”, ovvero la caduta del primo governo Berlusconi ad opera della Lega Nord alla fine del '94, non ha comportato automaticamente lo scioglimento delle camere, come invece avrebbe voluto il “Cavaliere” facendosi interprete del mutamento in atto della costituzione materiale; allo stesso modo, la caduta del governo Prodi nel '98 ad opera di Rifondazione Comunista non ha comportato lo scioglimento delle camere; tuttavia, tutte le tre elezioni politiche svoltesi con il sistema maggioritario ('94, '96 e '01) hanno visto l'indicazione preventiva delle coalizioni e del candidato presidente del consiglio.

Ci sono, poi, almeno altre tre controindicazioni tipiche dei sistemi elettorali di tipo maggioritario: la prima è che nulla garantisce a priori che tali sistemi producano una evidente maggioranza. Nel caso delle elezioni politiche del '94, ad esempio, l'alleanza composta dal “Polo delle libertà” (“Lega Nord” più “Forza Italia” al nord) e “Polo del buongoverno” (“Alleanza Nazionale” più “Forza Italia” al sud) non aveva ottenuto la maggioranza dei seggi al senato, che fu comunque garantita al primo governo Berlusconi dal voto favorevole di alcuni senatori centristi e dei senatori a vita (oggi tanto deprecati dallo stesso “Cavaliere”). Lo stesso presidente del Senato Scognamiglio fu eletto in quell'occasione con un solo voto di scarto sul candidato sostenuto dalle opposizioni (Spadolini). Molti sostennero che questo cattivo funzionamento del sistema maggioritario in Italia dipendesse dalla residua quota proporzionale con cui venivano assegnati un quarto dei seggi. Tuttavia, anche in Gran Bretagna, ovvero nella patria del “modello Westminster” di democrazia in cui da sempre è in vigore il sistema maggioritario, vi sono stati casi in cui non emerse una chiara maggioranza: ad esempio, in occasione delle elezioni del '64 il partito laburista ottenne una maggioranza di soli quattro seggi che indusse il premier Wilson all'indizione di nuove elezioni nel '66; nel febbraio del '74, il partito conservatore ottenne soltanto 297 seggi pur avendo ottenuto la maggioranza relativa dei voti (il 37,9%), mentre il partito laburista ottenne 301 seggi (su 630) con il 37,2% dei voti. Nessuno dei due partiti, dunque, ottenne la maggioranza assoluta, e si dovettero indire nuove elezioni per il successivo mese di ottobre, nelle quali i laburisti ottennero una risicata maggioranza di soli quattro seggi, che li indusse a formare una coalizione con il partito liberale e le minoranze scozzesi e gallesi.

La seconda controindicazione dei sistemi maggioritari è che essi sono assolutamente poco democratici, assegnando ampie maggioranze assolute di seggi a partiti che ottengono semplici maggioranze relative: ad esempio, sempre in Gran Bretagna, nell'83 il partito conservatore ottenne il 61,1% dei seggi con solo il 42,4% dei voti; viceversa, il partito liberaldemocratico ottenne soltanto il 4% dei seggi pur avendo ottenuto il 25,4% dei suffragi, per effetto della eterogenea distribuzione territoriale dei propri consensi; analogamente, nel '97 il partito laburista ottenne il 63,6% dei seggi con solo il 43,1% dei voti. In pratica, appare del tutto iniquo il principio per cui chi arriva primo nel singolo collegio uninominale ottiene tutto e nulla viene lasciato alle minoranze. Inoltre, tale iniquità è ancora più grande se si tiene conto del fatto – ed è la terza controindicazione dei sistemi elettorali maggioritari – che la maggioranza dei seggi potrebbe persino essere assegnata al partito che prende meno voti. Non si tratta di casi remoti: si è già visto, infatti, che nel febbraio '74 il partito laburista ottenne più seggi pur avendo ottenuto meno voti del partito conservatore; viceversa, nel '51 il partito conservatore ottenne la maggioranza dei seggi (321 su 625), ciò che permise a Churchill di tornare Primo Ministro dopo sei anni di governo laburista, con solo il 48% dei voti, cioè meno del 48,8% dei suffragi ottenuti dai laburisti, che tuttavia ottennero soltanto 295 seggi.

Tornando al caso italiano, il sistema in prevalenza maggioritario varato dalla Commissione Mattarella (da cui il nome con cui viene designato tale sistema, “Mattarellum”) non garantì – come noto – la stabilità degli esecutivi: infatti, negli undici anni in cui è stato in vigore, si sono susseguiti ben otto governi. E' pur vero che il Parlamento eletto con questo sistema nel 2001 fornì alla coalizione di centro-destra (che pure vinse per meno di due punti percentuali di scarto alla Camera, e circa tre punti di scarto al Senato, ma con uno scarto molto più ampio, pari a circa quattordici punti percentuali, nella quota proporzionale della Camera) una maggioranza così ampia (oltre cento deputati e circa quaranta senatori in più rispetto all'opposizione) da rendere possibile la sopravvivenza del governo più longevo della storia repubblicana (il secondo governo Berlusconi, con oltre 1400 giorni di durata, dal giugno 2001 all'aprile 2005); ma è anche vero che tale maggioranza rimase sempre molto turbolenta nel corso di questi quasi quattro anni, con inediti e numerosi avvicendamenti di ministri di primaria importanza (esteri, interni, economia, sanità, funzione pubblica) e numerose defenzioni dalla stessa maggioranza parlamentare nel corso della legislatura. Anzi, per garantire la sopravvivenza così a lungo del governo Berlusconi, si narra persino che fosse stato sottoscritto tra Forza Italia e la Lega Nord un contratto depositato presso un notaio in cui si concordava, in cambio della fiducia al governo per l'intera legislatura da parte della seconda, una riforma costituzionale in senso federalista.

In ogni caso, nonostante questa perdurante precarietà politica dei governi italiani, gli estremisti ed anti-partitici sostenitori del sistema maggioritario (in primo luogo i radicali, ed in secondo luogo – non a caso – le due formazioni eredi del PCI e del MSI, ovvero dei due partiti in precedenza esclusi dall'area di governo), recuperando una vecchia idea della rivoluzione francese secondo cui non ci dovrebbe stare niente in mezzo tra il cittadino e la Repubblica, e continuando ad ignorare l'eterogeneità politica e culturale italiana, ritenevano che tale perdurante precarietà politica dipendesse dalla residua quota proporzionale prevista dal “Mattarellum”: eliminando tale quota, dunque, si credeva che i problemi di “governabilità” del Paese sarebbero stati improvvisamente risolti. A tal fine, furono raccolte le firme per ben due consultazioni referendarie con lo stesso oggetto, ovvero l'abolizione della quota proporzionale, nel giro di soli tre anni, nel '97 e nel 2000: in entrambi i casi, però, i votanti non raggiunsero il quorum previsto, pari alla maggioranza assoluta degli aventi diritto, cosicché le consultazioni non furono valide (nel secondo caso non ci si arrivò per una manciata di votanti, circa lo 0,4% degli aventi diritto): nel giro di pochi anni, dunque, l'elettorato italiano aveva cominciato a diffidare delle presunte capacità salvifiche per il Paese del sistema maggioritario.

La volontà del Cavaliere di formalizzare quel cambiamento della costituzione materiale in atto già da diversi anni, che per molti aspetti era auspicato anche da vasti settori dell'opposizione di centrosinistra, e di sancire così il predominio del potere esecutivo su quello legislativo, congiuntamente alla necessità di varare una riforma in senso federalista promessa alla Lega Nord, si tradusse nel 2004 in un progetto di riforma costituzionale di proporzioni inedite presentato dal governo Berlusconi, con la modifica di ben 55 articoli su un totale di 139, approvata nel giro di due anni in doppia lettura da parte di ciascun ramo del Parlamento, così come previsto dall'art.138 della Costituzione stessa. Tale progetto, tuttavia, fu bocciato nel mese di giugno 2006 dall'elettorato, con un referendum confermativo previsto dallo stesso articolo 138. Qualora fosse stata approvata, tale riforma avrebbe trasformato la democrazia parlamentare italiana in un premierato vero e proprio che non trova eguali in Europa, e che avrebbe ridotto il Presidente della Repubblica in un mero notaio pronto a ratificare la volontà ed i capricci del Primo Ministro. In particolare, al Capo dello Stato sarebbe stata sottratta la fondamentale prerogativa di scioglimento discrezionale delle camere (una volta sentiti i rispettivi presidenti) previsto dall'art.88; il nuovo art.88, infatti, avrebbe puntualizzato i casi precisi nei quali il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto procedere obbligatoriamente allo scioglimento della Camera dei Deputati (non sarebbe stata più vincolante per il governo, invece, la fiducia del senato, che sarebbe stato trasformato in un “Senato delle Regioni”): dimissioni, morte, impedimento permanente, richiesta del premier o mozione di sfiducia. In tutti questi casi, il Capo dello Stato sarebbe stato obbligato allo scioglimento della Camera, a meno che la vecchia maggioranza (e non un'altra, ponendo così un implicito vincolo di mandato ai deputati) non nomini un nuovo Primo Ministro entro venti giorni: anche in questo caso, inoltre, il Capo dello Stato avrebbe avuto l'obbligo di ratificare tale scelta. Al Presidente della Repubblica sarebbe stato sottratto, quindi, anche il fondamentale potere di nomina del Presidente del Consiglio (che, infatti, sarebbe stato ribattezzato “Primo Ministro”) previsto dall'art.92. Nella nuova formulazione di tale articolo, infatti, “il Presidente della Repubblica, sulla base dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati, nomina il Primo Ministro”. Per non porre dubbi su tale obbligo da parte del Capo dello Stato, il precedente capoverso avrebbe recitato: “La candidatura alla carica di Primo ministro mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati all’elezione della Camera dei deputati, secondo modalità stabilite dalla legge. La legge disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”. Infine, a conferma dell'intento di rendere la maggioranza parlamentare ostaggio del Primo Ministro, lo stesso art.92 avrebbe previsto lo scioglimento della camera anche nel caso in cui l'esecutivo avesse ottenuto la fiducia grazie ai voti determinanti di deputati non appartenenti alla maggioranza uscita dalle urne: si sarebbe stato, pertanto, dell'unico Paese al mondo in cui un governo che ottiene la fiducia dal Parlamento, sia pure grazie ai voti di parlamentari prima facenti parte dell'opposizione, sarebbe stato obbligato non soltanto alle dimissioni, ma addirittura avrebbe vincolato il Presidente della Repubblica allo scioglimento delle Camere stesse. Lo scioglimento obbligato del Parlamento avrebbe dunque reso quest'ultimo succube del Primo Ministro, e le elezioni si sarebbero di fatto trasformate in una sorta di referendum pro o contro il capo di governo uscente. In conclusione, il capo del governo avrebbe assunto con questa riforma un potere autoritario che non avrebbe trovato più nessuna limitazione né dal Presidente della Repubblica, né dal Parlamento, bensì soltanto dalla scadenza naturale della legislatura, che sarebbe così divenuta l'ultima connotazione democratica in un assetto istituzionale altrimenti assolutamente dittatoriale.

Il corollario di questo progetto di riforma costituzionale, è stato il varo di una nuova legge elettorale, approvata anch'essa in fretta e furia a pochi mesi dalla fine della legislatura, così come si conviene ad ogni “legge truffa”, che – pur reintroducendo il sistema elettorale proporzionale, ma con liste bloccate – introduceva anche un cospicuo premio di maggioranza, inserendosi così nel solco della lunga e famigerata tradizione inaugurata dalla legge Acerbo nel '23 e proseguita dal tentativo fallito della legge truffa nel '53. Battezzata sin da subito come una “porcata” da parte di uno dei suoi stessi ideatori, il leghista Calderoli, ed entrata quindi nel gergo politico come “porcellum”, tale legge assegna alla Camera dei Deputati un premio di maggioranza per la coalizione di partiti che otteneva il maggior numero di voti su base nazionale, corrispondente a 340 seggi (escludendo quelli eletti all’estero), senza che l'elettore possa però esprimere una preferenza all'interno della lista votata. La cosa paradossale, però, è che al Senato la legge prevede l’assegnazione del premio di maggioranza su base regionale, in ossequio al dettato costituzionale che prescrive questo tipo di obbligo alla Camera alta. E’ evidente, pertanto, che per godere di un’ampia maggioranza al Senato, ad una coalizione non è sufficiente ottenere la maggioranza, ancorché relativa, dei voti su base nazionale, ma dovrà anche vincere all’interno di quasi tutte le regioni, ciò che risulta piuttosto difficile, se si tiene conto dell’eterogenea caratterizzazione politica del territorio italiano. In caso contrario, infatti, la coalizione vincente non potrà che disporre di una risicata maggioranza, così come è capitato alla coalizione di centro-sinistra in occasione delle ultime elezioni politiche. Appare comunque evidente che il “porcellum” sarebbe stata una vera e propria truffa qualora fosse stato approvato il progetto di riforma costituzionale di cui s'è detto: infatti, al governo sarebbe stata sufficiente la fiducia della Camera dei deputati, la cui maggioranza sarebbe stata comunque blindata. In ogni caso, rimane il fatto che il “porcellum” ha introdotto nel sistema elettorale italiano un'aberrazione – quella del premio di maggioranza – che non trova eguali altrove se non nella stessa storia politica italiana (per l'appunto, legge Acerbo e legge truffa).

Si arriva così all'odierna situazione: essendo stato bocciato dagli italiani l'eversivo disegno di riforma costituzionale presentato dal governo Berlusconi, appare evidente la necessità di cambiare l'attuale legge elettorale, sia per la truffaldina assegnazione del premio di maggioranza, sia perché evidentemente il “porcellum” creerebbe molto spesso un senato con maggioranze risicate, quale che sia l'effettivo esito elettorale. Dopo anni di sbornia maggioritaria, in effetti, alcune forze politiche hanno finalmente cominciato a proporre soluzioni più adeguate ad una democrazia di tipo consensuale, facendo riferimento ai sistemi elettorali di alcuni di questi Paesi (Germania e Spagna in particolare). Tuttavia, la populistica e “truffaldina” tentazione autoritaria – spacciata ancora una volta come soluzione riformista e salvifica per le sorti del Paese – stenta a soccombere dopo ormai tre lustri di illusorie mistificazioni: così, un nuovo comitato promotore ha raccolto le firme per sottoporre agli elettori italiani tre nuovi quesiti referendari. I primi due, in particolare, se venissero approvati, garantirebbero lo stesso premio di maggioranza in vigore oggi alla Camera dei Deputati (340 seggi, ovvero circa il 54% del totale) non alla coalizione vincente, ma semplicemente alla lista che ottiene il maggior numero di voti. Questo imporrebbe, dunque, che le forze politiche si presentino in un unico listone, al fine di ottenere più voti dello (o degli) schieramento avversario, ma naturalmente la frammentazione non verrebbe ridotta, poiché, una volta eletti, i parlamentari di ciascun partito formerebbero i rispettivi gruppi parlamentari. Ma ciò che è peggio, è che tecnicamente se ogni partito presentasse la sua lista, quella che ottiene la maggioranza relativa dei voti, con qualsiasi percentuale di voti, otterrebbe automaticamente il 54% dei seggi. Benché tale premio sia sostanzialmente più contenuto dei due terzi previsti dalla famigerata legge Acerbo, non può tuttavia sfuggire che almeno la legge Acerbo prevedeva che il premio sarebbe scattato soltanto qualora la lista di maggioranza relativa avesse superato il 25% dei voti; viceversa, la legge che scaturirebbe dal referendum – se passasse – assegnerebbe una netta maggioranza di seggi alla forza politica di maggioranza, come si è visto, con qualsiasi percentuale di voti: ad esempio, facendo riferimento alle ultime elezioni politiche del 2006, alla Camera la sola lista “L'Ulivo” avrebbe ottenuto i 340 seggi con il 31,3% dei voti; al Senato, invece, la lista “Forza Italia” avrebbe ottenuto 170 seggi, pur avendo conseguito soltanto poco più del 23% dei suffragi espressi.

Per scongiurare l'ennesimo tentativo di introdurre una legge truffa in Italia, pertanto, rimangono ancora due opportunità: la prima è che la Corte Costituzionale dichiari inammissibili i tre quesiti referendari (sulla base di una pur oscillante giurisprudenza in materia, che richiede, però, che i quesiti siano omogenei, chiari ed univoci6); la seconda è quella di confidare nella diffidenza che a tratti sembra maturata nell'elettorato italiano nei confronti di consultazioni referendarie dal chiaro sapore populistico.




Note
1. LIJPHART A., Le democrazie contemporanee, Bologna, Il Mulino, 1988, pag.33.

2. Cfr. GALLI G., I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, Rizzoli, 2004, pagg.7-8. La prima edizione di questo volume risale al 1966, ed era intitolato, per l'appunto, “Il bipartitismo imperfetto”.

3. L'indice messo a punto da Markku Laakso e Rein Taagepera fornisce “l'effettivo numero di partiti” presenti in un dato sistema partitico: esso è pari al reciproco della sommatoria dei quadrati delle proporzioni di seggi ottenute da ciascun partito. Ad esempio, se ipoteticamente in un'assemblea legislativa di 100 seggi avessero ottenuto seggi in ugual misura soltanto i partiti A e B (50 ciascuno), l'indice sarebbe uguale a 2. Infatti, 50/100=0,5; il quadrato di 0,5 è 0,25, e 0,25+0,25=0,5; a questo punto, 1/0,5=2. Cfr. LAAKSO M., TAAGEPERA R., “Effective” Number of Parties: A Measure with Application to Western Europe, in “Comparative Political Studies”, 1979, n.1, pagg.3-27. Citato da LIJPHART A., cit, pag.137.

4. Si veda a tal proposito il capitolo curato da Cristina Barbieri, dal titolo “L'europeizzazione del gabinetto ed il ruolo del Presidente del Consiglio”, nel volume curato da FABBRINI S., L'europeizzazione dell'Italia, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2003. Si sostiene qui che i processi d'integrazione europea da Maastricht in poi abbiano provocato una centralizzazione dei gabinetti di governo. Benché si mantengano delle riserve sul fatto che la causa principale o unica di tale processo sia stata l'Europa, l'autrice compie comunque un'accurata analisi comparata delle prassi di governo di quattro esecutivi italiani: Moro III ('66-'68), Craxi I ('83-'86), Ciampi ('93) e D'Alema I ('98-'99). Se ne conclude che i primi due si differenziano dai secondi due (più che i primi due tra loro ed i secondi due tra loro) per due caratteristiche di fondo: 1) i secondi hanno ricercato in misura nettamente maggiore la propria autonomia di azione al di fuori dell’esecutivo stesso; 2) mentre nei primi prevaleva la politics, ovvero “attività di governo volte alla gestione ed al contenimento delle istanze di strategia partitica”, nei secondi prevalevano le policies, ovvero “attività di governo volte alla formulazione di ed all’attenzione ai processi di decisione delle politiche pubbliche che non siano innervate dalla lotta per il potere”: quindi dal fare in senso tecnocratico e non più politico.

5. Si legga a tal proposito il bel saggio di Anna Leander e Stefano Guzzini dal titolo “Economic and Monetary Union and the Crisis of European Social Contracts”, in MINKKINEN P, PATOMAKI H. (a cura di), The politics of Economic and Monetary Union, Kluwer Academic Publishers, 1997

 

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2007 La Fornace