Vai al contenuto

(dal seminario del 13 marzo 2008 di Giorgio Gattei) a cura del Circolo Vittoria.

2000-2001: dalla crisi della new economy alla crisi dell’11 settembre

La crisi della new economy inizia nel 2001 con lo scoppio della “bolla di Internet”. Il Nasdaq (l'indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana) aveva cominciato a volare dal 1999 in un crescendo strepitoso che dura fino alla primavera del 2000. Prima di scoppiare i valori di borsa erano aumentati del 271%: in pratica, le quotazioni erano salite di quasi quattro volte. I sette-otto mesi della bolla sono stati la stagione d'oro, probabilmente irripetibile, della finanza mondiale. Qualcuno si era pure illuso che la crescita non avesse più fine ma poi, come l'impennata era stata velocissima, la caduta lo è quasi altrettanto. Fra marzo e aprile del 2000 l'incanto si rompe e il Nasdaq prende a precipitare. A fine anno 2000 è già a meno della metà e poi continua a scendere fino all'11 settembre 2001, il giorno dell'attacco alle Twin Towers di New York e al Pentagono a Washington. Allora si aggiunge anche lo sgomento per l’attentato terroristico, per la scoperta inedita che gli Stati Uniti sono vulnerabili anche al proprio interno. Prende così piede una “economia della paura” (di cui ha scritto Paul Krugman sul “New York Times” dell’ottobre 2001): la crisi di fiducia nelle aspettative di imprese e famiglie potrebbe essere tale da bloccare la crescita del PIL. Siamo forse alla vigilia del collasso dell’economia americana?
Superare la doppia crisi con la “bolla”

Naturalmente bisogna reagire. Secondo i rimedi pensati da Keynes per uscire dalla Grande Crisi del 1929-1933 si sa che il PIL può essere aumentare principalmente in tre modi:
? aumentando i consumi delle famiglie, il che si può raggiungere con un aumento dei salari;
? favorendo gli investimenti delle imprese mediante l’abbassamento dei tassi di interesse applicati al credito che le imprese chiedono per effettuarli;
? aumentando la spesa pubblica addirittura in deficit spending, ossia senza copertura finanziaria. Questa spesa pubblica può essere realizzata all’interno della nazione costruendo opere pubbliche, ma se all’interno si presentano ostilità insormontabili (la spesa pubblica è considerata dai benpensanti una spesa improduttiva), la si può rovesciare sull’estero mediante la guerra e la conseguente ricostruzione del paese avversario vinto.
E’ sulla base di queste ricette che negli Stati Uniti si procede. Da parte sua il governo decide subito di sostenere il PIL con lo strumento della guerra (è quello che in gergo è detto il “keynesismo militare”, dapprima in Afghanistan nel 2001 ma soprattutto in Iraq nel 2003, avendo per obiettivo il rilancio della produzione nazionale tramite le commesse belliche e la riduzione del prezzo del petrolio che si sarebbe guadagnato quando, dopo la sicura vittoria, sarebbero finalmente affluite sul mercato le ingenti riserve irakene (un affare stimabile attorno ai 3000 miliardi di dollari, a detta di James A. Paul, direttore del Global Policy Forum).
Anche la Federal Reserve si precipita a fare la sua parte abbassando il tasso ufficiale di sconto dal 6,5% del gennaio 2001 all’1% del giugno 2003. Qui però si presenta la necessità di introdurre una variante rispetto all’insegnamento keynesiano perché non si può più fare tanto affidamento sugli investimenti delle imprese finanziati a credito. Infatti nell’età della globalizzazione le imprese americane hanno delocalizzato all’estero molte produzioni, perché laggiù il costo della manodopera vi è più conveniente, e quindi non sono interessate ad investire più di tanto negli USA. Abbassare il tasso di sconto per loro non porterebbe dunque all’effetto sperato sull’economia nazionale.
E’ così che, con una innovazione pratica straordinaria, si decide di rivolgere quella riduzione del tasso di sconto al sostegno dei consumi delle famiglie mediante propaganda all’indebitamento immobiliare così che tutti posano diventare proprietari almeno della casa in cui abitano. E siccome il tasso d’interesse è annunciato a diminuire ancora (il governatore della FED affermerà pubblicamente nel novembre 2002 di essere pronto anche a portarlo addirittura a zero!), si incoraggia la stipula di mutui immobiliari ipotecari a tasso variabile rispetto a quelli a tasso fisso, così che le rate da pagare risultino nel tempo, col tasso d’interesse che diminuisce, sempre più ridotte. E siccome il valore di un immobile è pari alla somma delle rate da pagare divisa per il tasso di interesse, con quel tasso d’interesse a calare le famiglie si vedono aumentare il valore della casa che hanno messo a garanzia del debito contratto per acquistarla, e su quell’aumento di valore possono chiedere altro credito alle banche, da destinare questa volta direttamente ai loro consumi.
Per sostenere al massimo la crescita del PIL i mutui vengono concessi a chiunque, ossia non soltanto a clienti con un minimo di patrimonio oppure con garanzia immobiliare, ma proprio a tutti, perfino ai clienti NINJA (no income, no job and assets) che sono quelli che non hanno né stipendio né occupazione né patrimonio, ma a cui pure si aprono le porte del credito sebbene questi prestiti siano evidentemente al di sotto di qualsiasi livello di sicurezza finanziaria (ovviamente per il servizio di favore costoro pagheranno un tasso d’interesse più elevato del tasso di sconto, ma che sarà comunque anch’esso a calare).
Poi vengono diffuse le carte di credito “revolving” che consentono ai sottoscrittori di rateizzare il debito contratto con le banche pagando al mese soltanto una rata e posticipando al futuro il pagamento del rimanente, ovviamente ad un tasso d’interesse più elevato che però, per la politica monetaria accomodante della FED, peserà sempre di meno sulel tasche dei debitori.
L’esportazione della “bolla”

Ma non rischiano troppo per le banche a concedere così tanto credito senza adeguata copertura? Niente affatto se tutti questi mutui, anche quelli meno sicuri che sono detti subprime, possono essere “cartolarizzati”, ossia trasformati in titoli di banca commerciabili sul mercato e vendibili ad altri. Ma chi si azzarderebbe a comprarli? Così come si presentano, nessuno. Ma essi possono venire nascosti, insieme ad altri titoli garantiti con tasso d’interesse più basso perché a minor rischio, dentro obbligazioni collaterali di debito (i c.d. CDO, detti anche “pacchetti-salsiccia”) che, proprio per la presenza dei titoli sub-prime a tassi d’interessi più alti, danno nel complesso un rendimento più che appetibile per i risparmiatori.
Per nasconderli poi definitivamente intervengono le agenzie di rating che istituzionalmente hanno il compito di valutare i titoli in giro sui mercati, compresi quindi i CDO, misurandone la solvibilità mediante assegnazione di indici di qualità (AAA per i pacchetti più sicuri). E’ una funzione di controllo che dovrebbe servire a tutelare i risparmiatori sprovveduti (le valutazioni vengono fatte da esperti finanziari), ma siccome per questo servizio le agenzie di rating vengono pagate proprio dalle banche che hanno emesso quei titoli, esse sono naturalmente indotte a favorire i propri “datori di lavoro” sopravvalutando (assegnando quindi la qualità AAA, quando per esempio ai titoli del debito pubblico italiano era data la qualifica di AA- e si minacciava di diminuirla perché non proprio “affidabili”) anche a quei CDO con dentro i mutui subprime.
I quali, finalmente, ben nascosti nei “pacchetti-salsiccia” e sopravvalutati dagli indici di rating, hanno potuto circolar sfacciatamente per il mondo abbagliando i risparmiatori. Tutto congiurava per renderli apprezzabili quanti altri mai perché capaci di assicurare rendimenti più alti d’ogni altro titolo dipendendo da debitori ad alto rischio, ma presentandosi anche come più che sicuri perché favoriti della famigerata “tripla A”. Così facendo il rischio di perdita, che un tempo sarebbe pesato interamente sulla banca emittente il mutuo, è stato spalmato su di una platea così vasta di risparmiatori che anche nel caso del fallimento di un singolo CDO il danno per il mercato sarebbe risultato impercettibile.
Su questi “miracolosi” titoli di credito sono poi cresciuti altri contratti derivati e strumenti d’investimento strutturati (come i Siv e i Conduits), frutto della fantasia degli investitori professionali, allo scopo che tutti, ma proprio tutti, ci guadagnassero dall’indebitamento crescente delle famiglie americane.
Lo scoppio della “bolla”

Gli anni dal 2002 al 2006 sono stati una vera pacchia per i consumatori USA (che nel 2004, per riconoscenza, hanno rieletto Bush “il piccolo” senza necessità di brogli come era accaduto nel 2000). Ma va detto che lo sforzo di sostegno alla produzione del reddito mediante lo stimolo dei loro consumi è stato imponente se, a conti fatti, tra 2000 e 2006 si sono fatte indebitare le famiglie per 18.200 miliardi di dollari allo scopo di produrre appena 3.800 miliardi di dollari di PIL (risultato: il tasso d’indebitamento delle famiglie americane rispetto al reddito disponibile si aggira attorno al 130%; per paragone, in Italia siamo al 46%).
Era tuttavia una pacchia drogata dal credito facile che aveva un limite: esso poteva durare solo se i tassi d’interesse avessero continuato a diminuire. Ma questo avrebbe richiesto che la guerra irakena si chiudesse in fretta, consentendo gli Stati Uniti di chiudere la “bolla creditizia” con i nuovo affari e con il basso prezzo del petrolio. Ciò però non è stato perché, a dispetto dell’annuncio trionfale di “missione compiuta” nel maggio del 2003, la resistenza islamica ha trasformato l’Irak in un “pantano” che ingoia militari americani (pochi, almeno rispetto alle cifre della guerra del Vietnam) e assorbe risorse finanziarie che si ritorcono contro quel “credito facile” adottato per risolvere la crisi del 2000-2001.
? Intanto la guerra viene a costare sempre di più. Per l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz è ormai una guerra da 3000 miliardi di dollari, quando invece si era affermato che non avrebbe superato i 50 miliardi. Ma come ha trovato tanti soldi il governo americano? Dapprima ha dato fondo all’avanzo di bilancio lasciato dalla precedente amministrazione Clinton, poi ha stampato dollari a piene mani così che il disavanzo federale ha finito per superare il 5% (a confronto, secondo gli accordi di Maastricht il limite del deficit statale è del 3%, oltre il quale scattano delle penali. Ma gli Stati Uniti non aderiscono all’Unione Europea).
? Contemporaneamentella spesa militare si è rivelata sul campo improduttiva per l’impossibilità di far fruttare gli investimenti previsti nella ricostruzione e di sfruttare il petrolio irakeno, su cui pure gli americani hanno messo le mani, a causa dello stato di “guerriglia permanente”. Così l’offerta petrolifera non è riuscita a seguire una domanda internazionale in crescita, con la conseguenza che il prezzo del petrolio è schizzato dai 20 dollari al barile del 2000 a oltre i 100 $/barile.
? Ma disavanzo federale in crescita + prezzo del petrolio a salire = inflazione interna? Non è detto, perché le famiglie americane, solleticate dal credito facile a disposizione, si sono messe a comprare le merci straniere importate dalla grande distribuzione commerciale perché più a buon mercato rispetto alle merci nazionali (le “merci cinesi”). Così facendo, nonostante l’aumento della domanda si sono potuti tenere sotto controllo i prezzi, ma la bilancia commerciale, ossia la differenza delle esportazione dalle importazioni, è finita in un crescente disavanzo.
Incombendo con l’andar del tempo i due “deficit gemelli” federale e commerciale (che hanno reso gli USA il paese più indebitato all’interno e verso l’estero del mondo), è stato necessario prendere dei provvedimenti correttivi. Per raddrizzare la bilancia commerciale si è svalutato il dollaro così da rendere le esportazioni americane più favorite (dal cambio 1:1 tra dollaro ed euro a fine 2002, adesso per un euro occorre più di un dollaro e mezzo); per raffreddare la frenesia creditizia si è rialzato il tasso d’interesse dall’1% dell’estate 2003 al 5,25% di metà 2007.
Soprattutto quest’ultima misura ha segnato per i consumatori indebitati la fine del “sogno americano”: sui debiti contratti a tasso variabile sono cresciute le rate da pagare mentre, riducendosi il valore patrimoniale degli immobili, veniva portato allo scoperto il credito eccedente e le banche, preoccupate, chiedevano di rientrare; il sistema delle carte di credito si è appesantito per la maggiore incidenza degli interessi sulla parte di debito rinviata al futuro; chi non è più in grado di pagare il mutuo immobiliare si vede pignorare la casa posta in garanzia oppure è costretto a venderla. E per i clienti ninja? Questi non pagano e basta. Sarà peggio per i loro creditori che però, grazie alla circolazione dei CDO “a tripla A”, sono ormai sparsi in tutto il mondo.
Così la crisi è diventata un collasso sistemico (che era invece quanto s’intendeva evitare con la spalmatura dei titoli su tanti creditori) rispetto al quale nessuno può sentirsi del tutto al sicuro. «Tutti i titoli in cui si suppone che la presenza di mutui sub-prime perdono di valore. Le agenzie di rating, i Soloni del pensiero unico economico, con l’improntitudine di chi si è fatto cogliere in fallo, effettuano un downrating di migliaia di titoli [ne abbassano gli indici di qualità]. Le banche che li possiedono non reggono il colpo. Ma non è che l’inizio. Ad agosto l’interbancario inizia a bloccarsi. Che vuol dire? Semplicemente che le banche non si fidano della altre banche e chiudono i normali canali di finanziamento all’interno del sistema creditizio. Crisi di fiducia che si trasforma immediatamente in crisi di liquidità. Intervengono le banche centrali europea, americana, giapponese e australiana per fornire liquidità al sistema. E’ un fiume di denaro che si riversa sulle banche. Centinaia di miliardi di dollari ed euro. Non basta. La crisi si ripete a ottobre, a dicembre, adesso. Le banche centrali, la FED in testa, incominciano ad accettare titoli “illiquidi” in garanzia. Lo fa anche la BCE, ma non vuole che lo si dica. Sarebbe a dire che le banche prendono denaro a prestito dando in garanzia alle banche centrali carta straccia» (Sbancor, Vampirismo geoeconomico, in rete).

L’ammontare della “bolla”
Potremmo così essere alle soglie di un collasso finanziario di dimensioni colossali. Ovviamente l’ammontare dei crediti insolvibili da mettere in perdita ai loro possessori non è misurabile con certezza, anche perché la compravendita di CDO ed altri titoli connessi è avvenuta in gran parte tra privati e fuori mercato. Le organizzazioni finanziarie internazionali hanno comunque provato a farne una stima che però coll’andar del tempo è diventata sempre più grande. Nell’agosto 2007 per il governatore della FED c’erano appena 100 miliardi di dollari di perdite in giro, però a novembre l’OCSE ne ha portato l’ammontare a 200-300 miliardi che la Banca d’Italia, a gennaio 2008, ha innalzato a 600 miliardi. Una valutazione complessiva di tutto quanto è a rischio d’insolvenza – non solo i mutui sub-prime ma pure i mutui prime a tasso variabile, non solo le carte di credito delle famiglie ma anche le banche e le imprese che hanno acquistato CDO ad alto rischio, non solo i derivati di subprime ma pure le monolines sull’orlo del fallimento (come Ambac e Mbia) e le agenzie di rating che perdono valore in borsa – porta però ad una cifra superiore ai 1000 miliardi di dollari, giusta la stima del Fondo Monetario Internazionale ad aprile 2008 ed il titolo del primo libro americano sulla crisi (The trillion dollar meltdown di Charles Morris). E siccome a tutt’oggi sono state effettuate svalutazioni presso i principali istituti finanziari (Merrill Lynch, Citigroup, UBS, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Nomura, Lehman Brothers, JPMorgan Chase, Crédit Suisse, Deutsche Bank, Abn Ambro, Société Générale, Paribas, ecc.) per un ammontare di soli 200 miliardi, resterebbero ancora “in pancia” 800 miliardi di dollari di perdite da rivelarsi. A meno che non abbia ragione Nouriel Roubini, il più catastrofista tra gli economisti, che ha valutato la cifra impressionante di 3000 miliardi di dollari di perdite, esattamente quanto stimato da Stiglitz come il costo delle guerre americane in corso e come il valore previsto da John Paul dell’“affare irakeno”, se fosse andato a buon fine.

Come rimediare alla “bolla”

Per iniziare a smaltire il buco finanziario, sia le imprese multinazionali che gli istituti finanziari possessori di titoli-spazzatura hanno cominciato a mettere le perdite a bilancio, e questo non solo negli USA ma pure in Europa (una delle banche più colpite dalla crisi dei mutui americani è il colosso bancario elvetico UBS, che ha chiuso l’anno 2007 in rosso per la prima volta dalla sua nascita e prevede una perdita netta di circa 4,4 miliardi di franchi svizzeri. Anche Deutsche Bank e Merrill Lynch hanno chiuso in rosso: la prima per 131 milioni di euro e la seconda per 1,96 miliardi di dollari. Da parte sua Goldman Sachs ha tagliato del 15% il personale).
A rimedio la FED si è precipitata a cambiare la politica monetaria dedicandosi ad una frenetica riduzione del tasso d’interesse che è arrivata (per ora) al 2%. Ma non è stata seguita (sempre per ora) dalla Banca Centrale Europea, che pure aveva rialzato il tasso d’interesse fino al 4% del 2007 e poi continua a lasciarlo lì. Di conseguenza l’euro si apprezza sempre più sul dollaro, invogliando i risparmiatori ad abbandonarlo a favore della moneta europea (ma dove porterà questa “guerra monetaria” non è ancora dato a sapere...).
A Londra il governo laburista, invertendo la tradizione delle privatizzazioni, ha deciso di nazionalizzare una grande banca sull’orlo del fallimento, la Northern Rock, trasferendone (ma solo temporaneamente, secondo l’intenzione) la proprietà al settore pubblico; la Germania ha soccorso con denaro statale la Ikb Deutsche Industriebank; negli Stati Uniti la Bearn Stearns è stata acquistata dalla JP Morgan, preventivamente finanziata dalla FED. Sono forse i sintomi di un ritorno al tanto deprecato “capitalismo di Stato” negli anni della globalizzazione trionfante? Si sa che i lavoratori possono essere licenziati e le imprese possono fallire, ma le banche no. E quindi, vai al loro salvataggio!
Citygroup, Merrill Lynch, Morgan Stanley, UBS, Deutsche Bank, Blackstone e Barclays hanno invece scelto di chiedere aiuto ai fondi sovrani. Che fossero di Abu Dhabi, Singapore o Pechino non fa fatto, visto che il denaro non ha odore. Ma cosa sono questi “fondi sovrani”?

Ci salveranno i “fondi sovrani”?
La crisi in corso è originale perché non investe tutto il mondo. L’occidente ne viene colpito pesantemente, soffrendo d’insufficienza di liquidità, ma altrove... Altrove perdura il bel tempo, se il FMI prevede per il 2008/2009 una crescita del PIL superiore al 6 % in Russia, all’8% in India e oltre il 9% in Cina. Chi sta guadagnando dalla crisi sono i paesi che esportano energia (petrolio e gas) con prezzi in crescita, oppure che hanno surplus commerciali nell’esportazione di merci e servizi grazie ai bassi costi della manodopera. In cambio questi paesi incassano valuta estera che viene conservata quale riserva a difesa del tasso di cambio. Tuttavia queste riserve possono raggiungere un ammontare eccessivo, ed ecco la nascita dei fondi sovrani (sovereign wealth funds) destinati ad investire in strumenti patrimoniali e finanziari (e quindi azioni e obbligazioni, ma pure immobili ed imprese) quell’eccesso di riserve posseduto.
I fondi sovrani sono così nati nei paesi forti esportatori di petrolio: Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Norvegia (ed è il fondo pensione pubblico!), ma anche Singapore dove, grazie al rilevante surplus fiscale, il governo ha costituito il fondo Temasek, uno dei primi nati (nel 1974) e anche uno dei più attivi. Molto vivaci sono anche i fondi sovrani di Abu Dhabi e quello di Dubai, che detiene una quota del 5% nella Ferrari. La Cina dispone di ingenti riserve di valuta estera, grazie al notevole surplus commerciale, che ha investito soprattutto in titoli di Stato americani. Con la svalutazione del dollaro i Treasury Bond non sono risultati più tanto convenienti e così nel 2007 è stato costituita la China Investment Corporation, un fondo sovrano con una dotazione di 200 miliardi di dollari attivo sul mercato azionario.
Sebbene la presenza dei fondi sovrani non sia una novità, è soltanto con lo scoppio della “bolla” dei mutui sub-prime che la loro presenza si è mostrata con tutta la sua importanza. Le svalutazioni subite dai principali istituti finanziari potevano infatti essere ripianate grazie alla liquidità posseduta da quei fondi. E così è stato: soltanto nello scorso anno i primi 10 fondi sovrani hanno investito 73 miliardi di dollari spalmati su 52 operazioni di salvataggio o acquisizione. Nessuno ha eccepito sul fatto che fossero investitori governativi stranieri - e così Abu Dhabi è entrato in Citigroup, Dubai in Deutsche Bank, Singapore in UBS, Merrill Lynch e Barclays, mentre la prima operazione di China Investment Corporation è stata l'acquisto di circa il 10% del gestore di private equity Blackstone, cui ha fatto seguito l'investimento di 5 miliardi di dollari (il 9,9%) in Morgan Stanley.
I fondi sovrani non sono però del tutto innocui, avendo alcune caratteristiche difficili da digerire dal “libero mercato”. Innanzi tutto sono statali (sono i governi che li possiedono, compresi stati come Cina e Russia); non rispondono ad azionisti privati né sono tenuti a dare comunicazione ai mercati (non sono perciò “trasparenti”); non avendo di mira un dividendo annuo, investono nel lungo termine piuttosto che nel “mordi e fuggi” a breve, adottando strategie patrimonialistiche piuttosto che speculative; siccome la massimizzazione del profitto non è l’unica motivazione delle loro scelte, possono avere obiettivi di partecipazione in settori strategici (come infrastrutture, finanza, high tech, risorse energetiche e materie prime); sono particolarmente appetibili perché offrono liquidità immediata, ma se finora sono rimasti investitori “passivi”, potrebbero nel futuro chiedere di contare nelle decisioni aziendali, a partire dal diritto di voto in assemblea.
Il dibattito a favore o contro l’ingresso di questi fondi nel sistema proprietario delle imprese occidentali è appena all’inizio: respingerli oppure accoglierli a braccia aperte? L’esito dipenderà dalla dimensione della crisi. Attualmente i fondi sovrani sono presenti sul mercato con un ammontare complessivo stimato attorno ai 2500 miliardi di dollari, ma per il 2015 si prevede che ne avranno 12.000 miliardi (che, tanto per dare un’idea, corrispondono grosso modo al PIL attuale degli Stati Uniti). Troppi soldi per lasciarli alla finestra, se mai la crisi dovesse approfondirsi. Ma allora ne potrebbe derivare una mutazione epocale del rapporto imperialistico perché Europa e Stati Uniti, dal tempo di Lenin esportatori di capitali in tutto il mondo, finirebbero per diventare importatori di capitali altrui. Con tutte le conseguenze del caso.

Quanto è coinvolta l’Italia?
L’Italia sembra coinvolta solo marginalmente dalla crisi dei mutui. Il buco finanziario presentato dalle banche nazionali è relativamente basso, la più colpita essendo Unicredit con una esposizione ai mutui ad alto rischio iscritti a bilancio che a fine ottobre 2007 è stimata attorno ai 354 milioni di euro.
Ma le perdite interessano anche fondi d’investimento e fondi pensione, oltre che diversi enti locali, dai comuni alle regioni, che sono caduti nella trappola dei “derivati”. Secondo una ricognizione del Ministero dell’Economia a fine 2007 sarebbero 531 gli enti locali coinvolti per un ammontare complessivo di 38 miliardi di euro. La metà del debito (18 miliardi) farebbe capo a 19 regioni su 20, ma sarebbero coinvolte anche le province (per 3,5 miliardi), i comuni capoluogo (per 13 miliardi) e non capoluogo (per 3,5 miliardi) e perfino tre comunità montane (per 11,4 milioni di euro). L’obiettivo era di ottenere finanziamenti “a pronti” con periodi d’ammortamento lunghi abbastanza per gonfiare i bilanci senza aumentare le tasse comunali e rimandare alle giunte successive il debito da restituire comprensivo degli interessi (comunque con tasso a calare, che era quanto si prevedeva). Tutto questo per aggirare, senza tante discussioni politiche in assemblea, il taglio dei finanziamenti statali imposto dal “patto di stabilità interno” (che fa il paio, all’interno, con il più noto “patto di stabilità” di Maastricht).
E’ difficile recuperare i dati relativi ai singoli enti che hanno sottoscritto contratti derivati. L’unico elenco distribuito al pubblico è quello di Unicredit da cui risulta che i comuni lombardi clienti sono 16, tra cui Milano, per un totale di 950 milioni di euro. Il comune di Milano è attualmente indagato dalla magistratura per i contratti derivati collegati al maxibond emesso dalla giunta Albertini nel 2005 per rifinanziare alcuni vecchi mutui. Come riporta “Il Sole-24 ore” del 27 novembre 2007, per effettuare questa operazione la Giunta aveva selezionato quattro arranger: Depfa, Deutsche Bank, JP Morgan e UBS, a cui è stato dato un compenso dello 0,01%, pari a 168mila euro. Un volta selezionate le banche, Palazzo Marino ha lanciato il prestito obbligazionario a tasso fisso per un importo di 1,85 miliardi di euro. Ha però poi deciso anche di costituire uno «swap5 di ammortamento» (per trasformare la scadenza, che era in un'unica soluzione, in un piano di ammortamento pluriennale) e «una operazione di strumenti derivati di gestione del tasso d'interesse» (per trasformare il tasso fisso in uno variabile, perché si supponeva che diminuisse; quando invece è aumentato, il Comune si è accorto che il costo dell’operazione finanziaria aveva «subito un aumento superiore alle aspettative»). Il Comune ha sostenuto che il maxibond avrebbe fatto risparmiare 54,7 milioni di euro rispetto ai mutui preesistenti, più altri 5 milioni circa grazie allo swap5 sui tassi di interesse. In realtà, tra la prima firma di giugno 2005 e la rinegoziazione del settembre 2005, il Comune ha dovuto subire 20 milioni di costi dalla risoluzione anticipata di alcuni derivati già in essere con Unicredito banca d’impresa, più 48,1 milioni di valore negativo riguardante la parte di swap che andava risolto e che è stato assorbito dai quattro arranger, subito chiuso e addossato come minusvalenza sul derivato successivo. Questi 68 milioni di euro complessivi non tengono però conto delle commissioni bancarie da 30 milioni di euro, anch’esse assorbite come minusvalenza nel derivato legato al maxibond. Le rinegoziazioni successive hanno peggiorato la situazione con condizioni sempre più svantaggiose per il comune. Comunque si attendono i risultati della commissione di esperti, istituita dal Comune, per valutare l’entità del danno subito dall’amministrazione (cfr. “Il Sole-24 ore” del 7 febbraio 2008).

Glossario:
NASDAQ, acronimo di National Association of Securities Dealers Automated Quotation (ovvero: "Quotazione automatizzata dell'Associazione nazionale degli operatori in titoli") è il primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, cioè di un mercato costituito da una rete di computer. Il NASDAQ è stato istituito a Wall Street il 5 febbraio 1971. Fino a qualche anno fa il NASDAQ è stato caratterizzato da una forte volatilità, dovuta al boom della cosiddetta New Economy, infatti il Nasdaq è l'indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana. L'indice, dopo essere partito l'8 febbraio con un valore iniziale di 100 punti, ha raggiunto un massimo storico di 5132 punti il 10 marzo 2000, in pieno boom della New economy
Cartolarizzazione: è la cessione di attività o beni di una società definita tecnicamente originator, attraverso l'emissione ed il collocamento di titoli obbligazionari. Per lo più i beni ceduti sono costituiti da crediti, tuttavia possono essere immobili, contratti derivati o altro.
Rating: è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari che le imprese in base alla loro rischiosità. Viene espresso attraverso un voto in lettere in base al quale il mercato stabilisce un premio per il rischio da richiedere all'azienda per accettare quel determinato investimento. I rating sono periodicamente pubblicati da agenzie specializzate, tra le principali: Standard & Poor's, Moody's e Fitch Ratings. Esempio di classi di rating: Standard & Poor's:
AAA- Elevata capacità di ripagare il debito
AA- Alta capacità di ripagare il debito
A-Solida capacità di ripagare il debito, che potrebbe essere influenzata da circostanze avverse
BBB- Adeguata capacità di rimborso, che però potrebbe peggiorare
BB, B- Debito prevalentemente speculativo
CCC, CC - Debito altamente speculativo
D - Società insolvente
Mutui prime: con un discreto livello di sicurezza finanziaria, ad esempio clienti in possesso di lavoro stabile o di un patrimonio.
Derivati: sono strumenti finanziari il cui prezzo è basato sul valore di mercato di altri beni come azioni, indici di Borsa, valute, tassi, ma anche merci; ad esempio i derivati dei subprime sono i titoli ottenuti dalla cartolarizzazione di crediti immobiliari di tipo subprime. I derivati sono nati per coprire le imprese da una serie di rischi legati alle loro attività (ad esempio il rischio di aumento del tasso di interesse, di oscillazione dei prezzi delle materie prime o di credito). Gli swap (scambio) sono derivati che prevedono una scommessa con la banca e possono servire per coprirsi dal caro-tassi. Un’azienda per esempio che ha acceso un finanziamento a tasso variabile (mettiamo al 5%) teme che i tassi salgano; la banca gli fa questa proposta: “il tuo 5% lo pago io, tu pagherai a me un tasso fisso del 4,5%”; in teoria il cliente ci guadagnerà se i tassi saranno superiori del 4,5% e ci perderà se si attesteranno sotto questa soglia. I problemi dei derivati sono la loro complessità e i costi impliciti dei quali il cliente non riesce ad avere evidenza se non quando la banca inizierà a chiedergli grossi rimborsi.
Monolines: agenzie che assicurano parte del credito emesso da banche o fondi.

A colloquio con l’economista francese, in occasione del suo ultimo saggio “Come sopravvivere allo sviluppo”. Distruzione della biosfera, salari bassi, primato del mercato, alcuni dei temi toccati da Serge Latouche.

Bastone sottile che non serve nemmeno da appoggio, viso canuto alla Burt Reynolds, cravatta leopardata sopra una camicia bianca con righine azzurre e viola, Serge Latouche, 66 anni portati meravigliosamente, professore emerito di scienze economiche all’università Paris Sud, esperto di rapporti economici e culturali tra Nord e Sud del mondo, fa la sua comparsa in Italia, a Bologna. La facoltà di Scienze Politiche, materialmente a pochi passi dell’ex dimora del nuovo premier Prodi, è lo sfondo architettonico per l’incontro del professore che prende a prestito il titolo del suo nuovo volume, Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri), per argomentare l’utopia del nuovo secolo: la decrescita economica. In un italiano praticamente perfetto, Latouche in quasi un’ora e mezza di incontro con studenti e docenti, formula una sorta di compendio dell’intero percorso teorico-pratico che l’ha portato all’elaborazione di un concetto e di una dottrina socio-politica, avversata con la mente e con il cuore dagli economisti mondiali tutti. Ed è proprio il quesito di partenza, lontano da Giddens come dal socialismo reale e che piuttosto richiama ad una resistenza alla Davide contro Golia, ad essere rivolto immediatamente a Latouche. «Alcuni anni fa, sopravvivere allo sviluppo era un problema che interessava solo il Sud del mondo», spiega il professore francese, «il Nord voleva sviluppare il Sud e occidentalizzarlo, ma altro non era che il proseguimento della colonizzazione con altri mezzi a cui va aggiunta la relativa distruzione delle identità culturali e del tradizionale saper fare. Oggi, invece, tocca a noi occidentali: la distruzione della biosfera, la globalizzazione che altro non è che la mercatizzazione del mondo (e non la globalizzazione del mercato), quel gioco al massacro che porta ad abbassare i salari degli operai del Nord per renderli concorrenziali con quelli cinesi, altro non sono che elementi che compongono, paradossalmente, l’impossibile concetto di sviluppo sostenibile. Mentre io ritengo che l’unica soluzione stia nella società della decrescita economica».

Ma che cos’è esattamente la decrescita economica?

Non è un concetto, non è l’elemento simmetrico della crescita, nemmeno una teoria economica. E’ una parola d’ordine, è uno slogan per gridare un forte “basta” al discorso dell’ideologia economicista. Dobbiamo abbandonare il credo insensato del crescere per crescere che ha come solo obiettivo il profitto per i detentori del capitale. La crescita ha materialmente un limite. Vi faccio un esempio: ad un litro di petrolio corrispondono 5 metri cubi di foresta. A questo ritmo i 12 miliardi di ettari ancora utilizzabili nel giro di ben poco tempo si esauriranno; per non dire che le riserve di petrolio potranno bastare soltanto per altri trent’anni. Allo stesso tempo, però, basta un semplice rallentamento nel tasso di crescita per far cadere la società nello sconforto, con relativo abbandono dello stato assistenziale. Ecco perché suggerisco di uscire da questo circolo vizioso della crescita che è destinata ad esaurirsi molto presto e perché condanno anche tutta la sinistra istituzionale, oramai diventata socialiberista, che non osa uscire dal paradigma tradizionale della società della crescita.

Il problema a questo punto è come attuare i buoni propositi…

Questa sorta di ateismo contro la religione dell’economia e dello sviluppismo (straordinario vocabolo italianizzato dal francese, n. d. r.) prende le mosse dallo scollegamento del benessere dalla crescita economica, cioè far crescere il benessere diminuendo progressivamente il pil e drasticamente i costi negativi dei corollari della crescita, o ancor meglio: far decrescere il Ben-Avere statistico per migliorare il Benesssere vissuto. La base di questo percorso sarebbe internalizzare gli effetti esterni, ovvero far pagare alle imprese i costi che fanno sopportare ai clienti, agli operai e alle generazione future: dalle spese per la pubblicità (le spese pubblicitarie con 500 miliardi di dollari all’anno sono al secondo posto dei bilanci mondiali dopo i costo per gli armamenti), ai costi di spostamento di uomini e merci per il commercio che provoca insensato inquinamento.

E dopo questa sorta di umanesimo di fondo da cui partire, quali sono le altre tappe da seguire?

In primo luogo dobbiamo deeconomicizzare il nostro immaginario, che oggi ha assimilato come unici valori della vita il denaro e il guadagno; riconcettualizzare il valore di povertà, un elemento dignitoso che abbiamo trasformato in qualcosa di vergognoso; rilocalizzare le attività produttive e ritrovare la saggezza del senso del luogo e del vivere localmente; ridurre l’orario di lavoro per tutti, creando meno disoccupazione e un cambiamento di valori che ci porta a rivalutare come gli antichi, l’ozio; infine smetterla con l’assistenzialismo delle ong, reintroducendo i valori propri alle popolazioni del Sud del mondo.

Non le sembra di perseguire una sorta di mondo utopico?

Tutti, dai politici agli economisti, sanno del rischio che stiamo correndo. Basta vedere gli effetti di quella che io definisco la pedagogia delle catastrofi (guardate il comportamento degli acquisti nel post “mucca pazza”). E poi abbiamo bisogno di utopia, nel senso forte della parola, perché questi cambiamenti sono assolutamente possibili solo se lo vogliamo. Se, per esempio, prendiamo il treno da Reggio Emilia per Roma e scopriamo dopo la partenza di essere quasi arrivati a Torino, ci fermiamo, scendiamo e prendiamo il treno che porta dalla parte opposta, o no? Ecco, allora credo che la decrescita economica sia una scommessa dove la ragione, assieme alla necessità umana, porterà a democrazie locali ed ecologiche, piuttosto che al suicidio.

Messaggio 1 – Andrea, 20 maggio ’06

Un conto è dire che questo sviluppo economico ha grosse contraddizioni e pone gravi problemi sociali, ambientali, ecc., un altro conto è dire che "l'unica soluzione stia nella società della decrescita economica" (sic!!), un discorso talmente irrazionale da riconoscere che non si tratta di "un concetto, non è l'elemento simmetrico della crescita, nemmeno una teoria economica". Infatti, è una sciocchezza!

Messaggio 2 – Lorenzo, 20 maggio ’06

Su Latouche, aggiungo un elemento che può contribuire alla discussione. Una delle cose che voglio scrivere coinvolge proprio Latouche e altre forme di economie "utopistiche": per dare un giudizio veloce, non concordo con lui ne con tante altre proposte simili avanzate negli ultimi anni. Ovviamente, anche questo sarà argomentato meglio alla prossima assemblea.

Messaggio 3 – Doli, 21 maggio ’06

Ho riletto l'intervista di Turrini a Latouche, mi pare vi siano tante cose che sono nel nostro statuto, è in premessa utopico, ma perché si possano trarre elementi concreti di riflessione per ripensare il ruolo dell'economia e della politica. Non è questo che stiamo cercando di articolare? Voglio sperare che vi sia spazio anche per esercizi utopici sulla nostra rivista, ma non per questo si possa andare fuori dagli obiettivi, anzi...

Messaggio 4 – Doli, 23 maggio ’06

Visto che ieri sera il dibattito è continuato, credo che lo stesso Latouche possa dare un buon contributo per chiarire alcuni aspetti apparentemente contraddittori che erano emersi nella discussione stessa. [segue indicazione di link: http://www.socialpress.it/article.php3?id_article=1083 ]
C'e poco da fare a me convince abbastanza. Utopico o no fatico a capire come non si possano condividere le sue argomentazioni. Spero che un prossimo e articolato dibattito possa chiarirmelo.

Messaggio 5 – Andrea, 24 maggio ’06

Appena ho visto la tua segnalazione, sono andato subito a leggere di che si trattava. [Riferito all’articolo riportato nel link sopra citato. Se si può, forse vale la pena di riportarlo nel forum…]

Per dare una risposta necessariamente sintetica (è passata l'una di notte), riservandomi magari di approfondire, l'articolo salta così tanto di palo in frasca, al punto che non si preoccupa nemmeno di definire cosa sia questa idea della decrescita, se non in negativo ("non è un ritorno al passato", "è anticapitalistica", "non è solo di destra..")

Brevissimamente: che c'entra Lafargue con la decrescita? E cosa sarebbero il "lavorismo"ed il "produttivismo"?? Non è sempre stato patrimonio della nuova sinistra lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti?". E poi, non era addirittura Lord Keynes a prevedere, temo troppo ottimisticamente purtroppo, che cento anni dopo (scriveva nel 1930) l'uomo avrebbe potuto riscoprire "il vecchio Adamo che c'è in noi", lavorando soltanto tre o quattro ore al giorno?! Ma che c'entra tutto questo con la decrescita?!? Tra i sostenitori del diritto all'ozio ed alla liberazione del vecchio Adamo c'è un economista
molto vicino a noi. Chiedete a Gattei se "il cuccagnismo, fase suprema del capitalismo", come la chiama lui, si ottiene con la decrescita...
Invece gli ultra reazionari alla De Maistre, quelli sì che c'entrano davvero!!!

Nel seguito, mi pare che si continui a confondere indistintamente l'idea di "crescita" con l'idea di "capitalismo". Perché, gli antichi imperi non crescevano forse, anche se non esisteva una “contabilità nazionale”? E nel feudalesimo? La visione di Takis Fotopolous, invece, arriva al massimo ad immaginare come economia della crescita, ma non di mercato, soltanto lo scomparso "socialismo reale" (sic!). Semmai, bisogna prendere atto che il lavoro salariato, che ha dato il via alla fase capitalistica, nonché a tutte le sue storture e brutture, ha permesso però la fine della schiavitù, e ad una parte considerevole dell'umanità di riscattarsi ed ascendere a classi sociali più elevate. Vi sembra che le popolazioni che vivono nei continenti in cui il capitalismo non è arrivato, se non in tempi recenti, stiano tanto meglio? Dire questo significa essere capitalisti? Mah....

Mi viene un dubbio: ma non è che si confonde la crescita economica con il profitto? Occhio, perché un conto è la crescita (il PIL, tanto per intenderci), e un conto è il profitto, che è solo una parte del PIL. E generalmente, checché ne dicano i monetaristi, la crescita del PIL è correlata inversamente con la quota dei profitti. Nei mitici "golden thirty"
(dal 1948 al 1973), il PIL in Europa è cresciuto più di quanto non fosse cresciuto nei 150 anni precedenti: ma in proporzione, sono soprattutto i salari che sono cresciuti rispetto alla rendita ed al profitto. Viceversa, negli ultimi 15 anni (fase di crisi e di ristagno economico particolarmente acuta) sono soprattutto il profitto e la rendita che sono cresciuti, a danno dei salari. Allora qual è il problema? Il PIL o il profitto?! No, perché se si tratta di spingere verso la "caduta tendenziale del saggio di profitto", allora sì che mi verrebbe in mente un vecchietto con la barba che è vissuto
in Germania nel corso del XIX secolo....

Alla fine dell'articolo, emerge un altro indizio: l'idea di decrescita sarebbe connessa ai "valori di condivisione, solidarietà, eguaglianza e fratellanza". E qui trasecolo: ma come, mi si dice che l'idea della decrescita era l'idea della più grande rivoluzione borghese? Ma se è proprio dai valori della Rivoluzione Francese (assieme a quella Americana e quella Industriale inglese) che il ceto produttivistico per eccellenza, quella borghesia votata al profitto (che, pur essendo un furto ai danni dei lavoratori salariati, è comunque sempre meglio della rendita dell'aristocrazia di ancien régime) è finalmente andata al potere, tagliando la testa degli aristocratici, e scoprendo che il sangue era rosso come il
loro...

Ne avrei da dire ancora altre, ma l'ora è tarda. Solo un'ultima chiosa sulla questione nucleare: pur restando io al momento contrario ad esso, perché lo ritengo ancora non sufficientemente sicuro, tuttavia non mi sfugge che tra
qualche secolo, ma più probabilmente tra qualche decennio, la questione energetica si riproporrà in modo drammatico (benché io consideri un bene per l'umanità la finitezza delle risorse fossili), e pertanto anche il nucleare non si può escludere a priori per l'eternità. Ma questo richiederebbe un ampio dibattito sulla questione energetica (che tra l'altro aveva proposto Giorgio), e non certo sulla decrescita!!. Certo, l'Italia farebbe bene prima ad implementare il recupero di tutta l'energia da fonti rinnovabili, prima che piangere miseria...

P.S. Il lapsus di Doly è carino: in effetti anche a me quella di Latouche mi pare proprio un... Utopoco, cioè un'utopia di poco conto... ;-))

Messaggio 6 – Francesco, 24 maggio ‘06

Grande Faina! Questa mail notturna mi è piaciuta tanto che quasi quasi hai convinto anche me! ;)))

Scherzi a parte alcune delle critiche e delle osservazioni che sollevi mi sembrano molto interessanti. Tanto che dico subito che mi spiacerebbe molto se andassero perse. Magari più avanti potresti riorganizzarle in una qualche forma di intervento. Questo vale anche per eventuali interventi di risposta.
E' questo che intendevo per "discussione", ed è questo penso anche il senso dell'iniziativa partita da Lorenzo e proposta a tutti noi: leggere, riflettere, confrontarsi, cercare di capire.

E' buona anche l'idea di riprendere il tema proposto da Giorgio. Non mi sembra una bagatella, forse dovremmo rodarci. Anche la tua provocazione sul nucleare non mi scandalizza (bravo, sei il solito "la Faina"), ma forse ancora abbiamo molto da lavorare (soprattutto nel controllo di certe dinamiche che possono scatenarsi a livello personale e di gruppo).

Messaggio 7 – Doli, 24 maggio ‘06

Di sicuro sono rimasto un tantino spiazzato nel sentirmi dire che il problema dell'esauribilità delle risorse naturali della terra (petrolio, carbone etc.) non si pone "...tanto c'e un universo da sfruttare e
conquistare (Lorenzo)." Gulp!! [N.d.R. la citazione si riferisce al dibattito svolto in assemblea, non ad un intervento scritto]

Conversazione degna del ponte di un'astronave da battaglia Klingon (per fare contento Giulio citando Star Trek) più che di un gruppo di persone convinte di combattere il sistema capitalistico... comunque... va bene lo stesso sicuramente c'e una qualche sfumatura che mi sfugge. 😉

Ho anche appreso che i movimenti ambientalisti sono sponsorizzati e forse costituiti dalle grandi società di capitali, che li controllano secondo le loro esigenze. Non mi espongo per il WWF ma di Greenpeace mi fiderei un tantino di più. Quest'ulitima è stata addirittura vittima dei servizi segreti francesi e americani e non sono andati tanto per il sottile nel
tentativo di ostacolarla.

Possibile che il problema di un'economia eco-compatibile non sfiori neppure i nostri soci Lorenzo e Andrea?
Se il prezzo di tale economia fosse la decrescita, sarebbe poi tanto male?
Pensiamo anche all'economia bellica, che coinvolge risorse imponentissime, a detta di molti elemento trainante dell'economia mondiale e sicuramente di quella americana.
Controllare gli investimenti bellici, ridurli al minimo indispensabile e forse un giorno giungere al disarmo totale, è forse un'idea tanto bella quanto irrealizzabile? (anche se mi ostino a "immaginarla" possibile)
Ha senso o no pensare a questi problemi?

Come ultima il PIL come parametro della crescita. Chomsky mi ha insegnato ad essere un tantino diffidente nei suoi confronti... Meglio guardarci dentro e analizzare le singole voci.

Messaggio 8 – Doli, 25 maggio ‘06

A quanto pare la discussione sulla descrestita è stata sviluppata sulla rivista del manifesto qualche tempo fa mi pare molto interessante:

"molto interessato alla discussione che si è aperta su Liberazione a proposito della "decrescita", in quanto la rivista Carta sostiene le tesi di Serge Latouche, dalla critica all'utilitarismo all'analisi del post-sviluppo, ad esempio in Africa, fino appunto alla decrescita". A Pierluigi Sullo "pareva che su Liberazione, fino ad oggi, gli argomenti degli uni e degli altri (essendo gli altri i post-neo-keynesiani tuttora legati alla dottrina dell'aumento della produzione, cioè dei salari, cioè dei consumi, come indice del benessere di una società) avessero potuto svolgersi con una certa pacatezza. Finalmente, mi dicevo, si accetta un confronto così spinoso, per la cultura di sinistra, così duramente ancorata allo "sviluppo delle forze produttive" da "liberare" dai vincoli imposti da quel "rapporto sociale" che passa sotto il nome di
capitale. E nemmeno il disastro ambientale, o la crisi generalizzata della democrazia, o la catastrofe sociale globale, o la scelta - per molti versi obbligata - della guerra come motore dell'accumulazione hanno scalfito, negli ultimi anni, la convinzione di molti "economisti marxisti" (denominazione che a me suona come un ossimoro) che la soluzione a tutti i guai stia nella ripresa dello "sviluppo", purché al posto di guida della macchina infernale ci sia la "politica", essa sì in grado di orientare gli "investimenti", "redistribuire la ricchezza", ecc. Ma insomma, mi dicevo, questo problema si è finalmente aperto anche in un partito comunista come Rifondazione. Merito, pensavo, delle aperture culturali dell'ultimo congresso, sulla nonviolenza (che non è solo una maniera di fare gentile, ma un'altra possibile forma delle relazioni sociali nonché una critica del potere), sulla democrazia municipale (basata sul presupposto che le "classi" sono state sparpagliate sul territorio, che è la "fabbrica" neoliberista, oltre che su un diverso rapporto tra città e campagna, tra produzione e consumo), e su altre acquisizioni dell'altermondialismo.
E dello zapatismo, aggiungerò". Per Pierluigi Sullo seguendo il ragionamento di Andrea Ricci, basato sull'equazione "l'amico del mio nemico è mio nemico", "i sostenitori della decrescita, primo tra tutti Serge Latouche, sono alla meglio reazionari, sennò direttamente fascisti o nazisti, o ambedue le cose[?]
Nei miei anni giovanili mi sono anche molto occupato della corrente di pensiero che fa capo ad Alain de Benoist e, in Italia, a Marco Tarchi, con il quale - lo segnalo a Ricci come dichiarazione di colpevolezza - ho perfino tenuto, in anni lontani, un carteggio che aveva al suo centro le rispettive, molto diverse, interpretazioni di Antonio Gramsci. Di questo tema ebbi modo di dibattere, con Tarchi, a un "Campo Hobbit", sorta di camping estivo dei neonazisti che ero andato a visitare per scriverne sul manifesto, di fronte a duecento camerati in tuta mimetica e con il cranio rasato. Ricci ne ricaverà un ulteriore teorema: ecco da dove viene Carta, dove nasce la sua passione per la decrescita.
Io cito questi fatti, invece, per dire che so bene di che cosa stiamo parlando, e quanto vecchia (inizio anni ottanta) è la "scoperta" del comunitarismo di stampo neonazista (il fascismo c'entra poco, faccio notare a Ricci). Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e molto neoliberismo ha frantumato e ristrutturato (sto citando Marcos) le nazioni, i popoli, gli Stati e, va da sé, i modi della produzione. Ed è francamente inquietante che vi sia chi, come Ricci, evidentemente smarrito in una scolastica "marxista" (ma lasciamo in pace Marx), come quel tale cavaliere, che non se n'era accorto, andava combattendo ed era morto. Seguissi lo stesso stile, potrei "dimostrare" che gli appelli allo "sviluppo" o alla "crescita" di questa sinistra-economista sono identici a quelli del presidente del Fondo monetario o, più modestamente,
del capo della Confindustria o del governatore della Banca d'Italia. E che infatti il sostegno della sinistra più "responsabile" a privatizzazioni, ponti sugli stretti e altri orrori antisociali germina da quella medesima
radice".

Messaggio 9 – Andrea, 25 maggio

Lo ripeto per l'ennesima volta (anche qui problemi di comunicazione, a quanto pare...): un conto è occuparsi di una prospettiva di crescita economica eco-compatibile, cosa che ritengo non solo opportuna ma anche necessaria, un conto è postulare la decrescita... Mi paiono due prospettive così diverse, che non capisco come possano essere confuse!
Ripeto anche (per la terza volta) che ritengo la finitezza delle risorse fossili una buona cosa per l'umanità...

Messaggio 10 – Doli, 25 maggio ’06

Riassumi in modo schematico (1,2,3... etc) le tue obiezioni.
Cercherò di rispondere punto per punto, ma mi pareva che il materiale che ho "scavato" riassumesse e forse in alcune parti sviluppasse le posizione di entrambi.
Comunque lunedì ho udito poche volte la parola "crescita eco-compatibile", ma forse non ho afferrato bene, no problem.
Utopico o fattibile, scambierei volentieri mercato delle armi e consumo delle risorse fossili in cambio di maggiore salute pubblica e molti degli oggetti superflui di cui le nostre case sono zeppe.

Messaggio 11 – Andrea, 26 maggio ‘06

Mi limito solo ribadire che tutti questi sostenitori della "decrescita": 1) continuano a definire questa ricetta "in negativo", senza spiegare come funzionerebbe; 2) generalmente chi sostiene questa tesi la argomenta in termini (pre)politici, ma mi pare che nessuno ne sappia un acca di economia; 3) forse, se vi toglieste il pregiudizio che l'economia è una disciplina per capitalisti o, peggio, che serve solo a capire come si fanno i soldi, potremmo svelare l'equivoco; 4) per questo chi scrive di decrescita non conosce Marx, oppure ne conosce solo l'aspetto più filosofico; 5) l'idea della decrescita non la paragonerei tanto al nazifascismo, quanto ai pensatori reazionari antirivoluzionari (nel senso anti rivoluzione francese/liberale/industriale), e quindi difensori del più oscuro ancién régime: alla De Maistre o alla Burke, per l'appunto.

Messaggio 12 – Lorenzo, 27 maggio ’06

Fondamentalmente mi trovo d'accordo con Andrea.
In sintesi,come già detto,si tratta di posizioni neo-malthusiane, utopiche e pure raffazzonate.
Si guarda, in maniera non palese ma chiara, a un passato ritenuto migliore del presente, quando l'uomo non violentava la natura, non era ossessionato dai consumi e viveva quindi felice e contento. O, peggio, si pensa di poter fermare
lo sviluppo e dire "ok, così basta".
Non mi sembrano posizioni propriamente progressiste (ops!),volevo dire...mi sembrano un po' conservatrici se non reazionarie.
In ogni caso, sarebbe interessante che mi fossero segnalate pubblicazioni on line e cartacee dove possa approfondire l'argomento e scrivere quell'articolo che avevo in mente.

Messaggio 13 – Giulio Cesare, 28 maggio ’06

Non potendo per ora intervenire approfonditamente sulla decrescita, dirò che in sede politica, ibi et nunc, si traduce sicuramente in misure reazionarie, ma noi eravamo in sede teoretica ed allora è lecito mettere in dubbio il dogma produttivista (purché non davanti alla servitù ;-)). Scartare a priori le soluzioni a PIL stazionario o decrescente deve essere giustificato razionalmente. Si potrebbe farlo in Teoria dei Giochi mostrando che la strategia a PIL crescente domina le altre sulla matrice delle vincite, ma non spetta a me farlo, dato che ho espresso il dubbio. Se poi proprio non ce la fate, gioco anch'io con voi 😉

Messaggio 14 – Giorgio, 1 giugno ’06

La formula della decrescita di Serge Latouche si riduce, come egli stesso afferma, ad un semplice grido per le folle, uno slogan, e che sia Latouche stesso a presentare la propria teoria come uno slogan mi rende al quanto scettico sulla sua efficacia. Mi piacerebbe sapere come l'economista francese, al di là dei riflessi sensazionali che la sua elucubrazione può suscitare sul pubblico, sia in grado di dimostrare, con i crismi della disciplina di cui si occupa, che la teoria della decrescita è sostenibile e, soprattutto, implementabile (spalanco i padiglione auricolare a repliche e bibliografia).

Prima di proseguire apro una parentesi su un argomento specifico a cui Latouche fa cenno: ecologia e petrolio. Sono d'accordo con quanto dice riguardo al pericolo che incombe sui cosiddetti "polmoni del pianeta", miliardi di ettari di foresta che di giorno in giorno sono annientati dagli interessi dei grandi capitali; per nulla d'accordo (e qui sottoscrivo quanto già stato detto da Andrea) mi trovo sulle preoccupazioni che susciterebbero le risorse limitate (a trent'anni, quaranta?) dei combustibili fossili. Più che gridare "cittadini del mondo, siate cauti con lo sviluppo e la crescita economica perché di questo passo le risorse energetiche finiranno presto" sono dell'idea che prima secchiamo i giacimenti petroliferi di tutto il pianeta, prima possiamo orientare con serietà i nostri saperi e convertire le nostre economie verso la frontiera delle energie rinnovabili. A meno che non interessi quali nuovi scenari geopolitici si prospetterebbero e quali benefici nei confronti dell'ecosistema tutto si genererebbero con la cessazione dell'uso dei combustibili fossili (e qui gli esperti non sanno più in quale lingua dirlo per farcelo capire).

Detto questo, torno alle parole dell'intervista che mi hanno maggiormente stimolato. Il concetto che fatico molto a razionalizzare è l'aumento del benessere sociale a fronte di una diminuzione del PIL, che Latouche propone di realizzare mediante una progressiva diminuzione dei «costi negativi dei corollari della crescita». Accollare le spese di pubblicità e di logistica alle imprese e non ai clienti, come dice Latouche, in cosa dovrebbe tradursi se non in una generale diminuzione dei prezzi dei singoli prodotti? Come a dire: capitalista, vedi un po' di togliere dalla merce che produci il costo della pubblicità e del trasporto che se no il nostro benessere, nemmeno col cannocchiale! Umm, ma una volta non si diceva che la pubblicità è l'anima del commercio e viceversa? Ditemi voi se, in qualunque ottica di consumo, pubblicità e trasporto possono definirsi «costi corollari della crescita». Comunque, se ho capito bene e le cose stanno così, Latouche ci dice che in definitiva il capitale dovrebbe cedere parte del proprio profitto in "capitale pubblico". Stupendo, ma questo somiglia tanto all'umanesimo di Carletto Marx, e chi potrebbe negare la meraviglia di una simile utopia? Ma se si volesse far scendere l'utopia dal suo firmamento come può il teorema di Latouche realizzarsi, quali sarebbero gli attori sociali dal cui contenzioso si genererebbe questo "benessere collettivo"? C'è un dato storico che fa una differenza macroscopica tra Latouche e Marx. La lunga e dolorosa storia della classe operaia e delle lotte sindacali per i diritti e l'aumento salariale vede precise parti sociali battersi per ottenere un aumento del proprio "Benessere" (usiamo pure l'espressione di Latouche). In prima istanza diciamo che in questo caso si e trattato e si tratta ancora di un duello nel quale le stesse parti sociali lottano con le proprie pragmatiche armi: il lavoro, la contrattazione. In secondo luogo -ed è ciò che più conta- di fronte al capitale c'è l'operaio e, viceversa, di fronte all'operaio si staglia il capitale, la partita vera è questa, dice Marx. Se il buon Carletto diceva che lo scontro è tra le due classi contrapposte, in Latouche il contenzioso tra chi è? Qualcuno forse direbbe che ad imporre una razionalizzazione delle spese dei grandi capitali in direzione di un maggior benessere sociale occorra una regolamentazione del mercato da parte delle istituzioni (come a dire, facciamo un passo indietro di oltre 200 anni e applichiamo le teorie dei mercantilisti inglesi). Inoltre, come possiamo pensare di ridurre «i costi di spostamento di uomini e merci per il commercio» in un'economia globalizzata come quella del presente? Ecco dove sta la bontà di Latouche: dichiarare subito che la teoria della decrescita deve scampanellare come uno slogan e che quindi -aggiungo io- starebbe meglio dentro un trattato di etica delle responsabilità dell'uomo capitalista, piuttosto che in una formula economica. In altre parole, uno slogan non è un programma, a meno che non si voglia prendere spunto dalle nostre campagne elettorali.

Messaggio 15 – Doli, 1 giugno ‘06

Beh detto questo, che puo anche essere condivisibile, i ragazzi della decrescita vanno giù "peso"...
Hanno fatto un sito e una rivista sulla nostra stessa idea, internet e PDF stampabile, bellissimi con illustrazioni e grafica.

Fateci una visitina http://www.decrescita.it

Se posso permettermi un commento da un filosofo mi sarei aspettato uno slancio nell'utopia. Anche se inattuabile la decrescita è comunque un esercizio di pensiero utopico che merita di essere sviluppato fino in fondo.
Fosse solamente per il suo valore immunizzante dall'omologazione di un immaginario econimico basato sulla perversione.

Messaggio 16 – Giorgio, 1 giugno ’06

Ciao Roberto. Grazie per la segnalazione, ho fatto la visitina a decrescita.it. e, sorvolando sui contenuti, dici giusto, ha una veste grafica che faremmo bene ad osservare.
Pare che tra gli orizzonti ideali degli sbandieratori dello slogan (tra gli antisviluppisti c'è una consapevolezza dichiarata e rispettabilissima che si tratta appunto di uno slogan) la salvaguardia dell'ecosistema sia tra le prime file. Ed è un dato che sull'argomento mi annebbia ancor di più le idee. Insomma, dico, se proprio adesso saliamo sul treno per Roma (la metafora di Latouche) anzichè restare su quello per Torino, come ci scalderemo in inverno, come arriveranno le derrate sul banco dei lattai e dei fruttivendoli, come dovranno essere ripensati i servizi? Indubbiamente l'ecosistema ristabilirebbe presto i suoi equilibri (e sia chiaro, l'ambiente mi sta a cuore almeno quanto a loro), ma il genere umano è come se si svegliasse da un sogno durato almeno quattro secoli; siamo tutti disposti ad accettarlo? Io no.
Hai ragione, forse qui manca un po' di quello slancio utopico che anche il filosofo più cinico e realista ha colto nella vulgata dei manuali della storia del pensiero. Ciò non vuol dire tuttavia che io non abbia un pensatoio utopico personale. E se vuoi è ancora più staccato da terra di quanto sia l'antisviluppismo che ci siamo or ora sottoposti: preferisco sognare il paradiso terrestre della cibernetica ad energia rinnovabile dove l'uomo siede paffuto, ozioso, ben ossigenato e servito dalle macchine. E va da sè che la via per giungervi non sta nell'equazione arresto-retrocessione dello sviluppo (fatto mi risulta mai verificatosi arbitrariamente nella storia dell'umanità), quanto piuttosto in un progressivo superamento dell'attuale stadio del cammino umano.

Messaggio 17 – Andrea, 2 giugno ’06

Ho dato anch'io un'occhiatina al sito.

A parte la struttura del sito e la grafica, indubbiamente molto carini, per il resto mi paiono una gabbia di matti!
Innanzitutto devo prendere atto, assai dolorosamente, che ignoravo quanto simili idiozie abbiano preso piede in vaste aree della sinistra alternativa e/o antagonista e/o altermondista, a partire da solide roccaforti analitiche, come "Le Monde Diplomatique", fino, ahimé, a Liberazione, ergo a Rifondazione.
Per questo motivo, ho cercato a fondo, leggendo alcuni dei documenti contenuti nel sito, di capire perché mai cosi tanti compagni (?) siano stati folgorati dal credo antisviluppista.

In sintesi, ho trovato tre tipi di risposte: una concreta, una ideologica ed una, per così dire, "mistica".

La prima è che lo sviluppo economico fin qui perseguito starebbe minacciando l'ambiente, e l'umanità;
la seconda è che questo tipo di sviluppo (capitalismo) sarebbe iniquo ed alla base di ogni ingiustizia sociale;
la terza, mi pare di capire, starebbe in un rifiuto della complessità e della modernità, e nella ricerca quindi di una sorta di mistica new age: rifiuto degli elettrodomestici (a partire dalla tv), rifuto della mobilità e dell'automobile, rifiuto della grande distribuzione, ritorno in campagna a coltivare l'orto... A me pare il trionfo dell'eremitismo, altro che cooperazione e solidarietà...

Alle prime due mi pare di avere già risposto nelle precedenti e-mail, mentre alla terza mi pare che ogni commento sia superfluo... Già il fatto che questi qui usino la tecnologia più avanzata (internet), con conseguente spreco, ehm... utilizzo energetico mi pare che la dica lunga sulla sensatezza delle loro idee.

Ma veniamo a qualcosa di più specifico:

1) Vorrei innanzitutto chiarire questa storia della presunta "colonizzazione dell'immaginario", ovvero dell'equivoco linguistico (ancora!) sul cosiddetto "dogma produttivistico", e sulla "crescita fine a se stessa". Vorrei chiarirlo addirittura da un punto di vista antropologico, perché così va inteso. L'Uomo, in quanto animale culturale, non è in grado di fornire una risposta istintuale a molte delle sue pulsioni. Per questo, sin dall'inizio del processo di ominizzazione ha cominciato a "produrre": ha prodotto strumenti (armi) per cacciare e quindi nutrirsi, pelli per vestirsi, rudimentali abitazioni per proteggersi... Dunque produrre è qualcosa di intrinsecamente umano, e nessuno lo ha mai postulato come "dogma". Sarebbe come dire "il dogma del consumo del cibo", quando uno ha fame!
Ora, ripeto per l'ennesima volta, se nel suo millenario percorso di progresso (e talvolta anche di regresso, perché le cose si possono anche disimparare, come nell'alto medioevo) lo sviluppo umano ha messo a repentaglio l'ambiente e (forse) la sua stessa esistenza, allora si dovranno cercare delle soluzioni, anche radicali se necessario. Allora, parliamo di questo! Voglio esagerare: si potrebbero dover adottare soluzioni che potrebbero persino costringere a rallentare la produzione (ma non ci credo molto). Ma postulare addirittura la fine della crescita non è solo utopico: è disumano!!

2) ancora sull'idea che la crescita sia fonte di ingiustizie. Si dice, in un articolo-manifesto di Jacques Ellul (Le Monde Diplomatique, novembre 2003): "Un cittadino degli Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo lontanissimi dall'uguaglianza planetaria, e più ancora da una civiltà sostenibile, per la quale non potremmo sfruttare più di 1,4 ettari a testa - e per di più con il presupposto che la popolazione rimanga al livello attuale". A parte il fatto che non si spiega come si arriva a questo conto, ma l'autore ha forse fatto i conti per verificare se tale sfruttamento era maggiore o minore alcuni secoli fa, che so, nel feudalesimo? E poi che significa "in media"? Se mi parli di disuguaglianza non mi dovresti parlare di media, semmai di varianza...
L'articolo di Ellul è, in realtà, pieno di affermazioni calate dall'alto, senza alcuna argomentazione, che è tipico dei maestri di qualche mistica, o dei profeti dell'apocalisse. Ecco alcuni esempi:

"Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, cui seguiranno quelle per l'acqua, ma non solo. Si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche".

"La società della crescita si può definire come una società dominata da un'economia improntata, per l'appunto, al principio della crescita, dal quale tende a lasciarsi fagocitare. La crescita fine a se stessa diventa così l'obiettivo primario della vita, se non addirittura il solo".

"Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura con l'artificio".
"Secondo Ivan Illich, la fine programmata della società della crescita non sarebbe necessariamente un male. "C'è una buona notizia: la rinuncia al nostro modello di vita non è affatto il sacrificio di qualcosa di intrinsecamente buono, per timore di incorrere nei suoi effetti collaterali nocivi - un po' come quando ci si astiene da una pietanza squisita per evitare i rischi che potrebbe comportare. Di fatto, quella pietanza è pessima di per sé, e avremmo tutto da guadagnare facendone a meno: vivere diversamente per vivere meglio". La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai "benestanti": è un'"antisocietà" malata della propria ricchezza. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si rivela sempre più un'illusione."

3) Per concludere, ribadisco ancora una cosa: se la decrescita fosse la soluzione, allora l'Europa degli ultimi 15 anni dovrebbe essere un paradiso terrestre, visti i livelli minimi storici di crescita toccati in questo periodo dal vecchio continente. E invece, rendita e profitto sono aumentati, le disuguaglianze anche, le ore lavorate anche, e la precarietà anche, mentre è diminuita la produttività! Altro che cooperazione e solidarietà!
Viceversa, "lavorare meno, lavorare tutti" significa favorire lo sviluppo redistribuendo ricchezza (quindi facendo aumentare i consumi), e aumentando la produttività del capitale (cioè tecnologica), e non del lavoro (cioè riducendo i salari).

4) Da ultimo, leggetevi il delirante decalogo del perfetto "antisviluppista" in uno degli articoli del sito: roba da non credere! Buttate via la TV, buttate via l'auto, non prendete l'aereo, non muovetevi, anzi, andate ad abitare dove lavorate (magari nel famoso orticello...), ...insomma, davvero divertente se non ci fosse davvero tanta gente abbindolata da questo delirio!

Messaggio 18 – Doli, 4 giugno ’06

Bene, vedo che anche tu ad argomenti non sei poi così razionale...

>A parte la struttura del sito e la grafica, indubbiamente molto carini, per il resto mi paiono una gabbia di matti!

Vabbe...

C'è un punto 0: dammi un elemento oggettivo, ricerca scientifica qualificata che dimostri che il nostro ecosistema non sia in pericolo sia sul breve-medio che lungo periodo. A riguado il parere scientifico è quasi unanime. Si discostavano
solo un gruppo di scienziati collegati all'amministrazione americana, nel periodo firma protocollo Kyoto. Vedi un po' tu...

Ti assicuro che hanno più coscienza ecologista i dirigenti della multinazionele chimica dove lavoro, che il compagno Faina... Che lo facciano solo per moda?

1) Quindi? Per motivi antropologici siamo condannati alla crescita infinita? E quindi anche alla guerra infinita, visto che il conflitto appartiene alla storia dell'umanità almeno quanto il produttivismo.

Io spero che un poco di sale in zucca prima o poi dimostriamo di avercelo, e si riesca a trovare un modo di pensare il nostro essere nel mondo un poco diverso. Che la produzione non sia uguale alla felicità lo dimostrano proprio gli americani, che sembrerebbero essere oltre il 40° posto in termini di qualità della vita.

Personalmente penso alla decrescita come ad un anticorpo che permetta a tutti di fare i conti con le risorse naturali limitate. E se questo permette il modificarsi dei consumi e quindi delle produzioni il prima possibile ben venga.

2) addirittura non credi che occorrano molti più ettari di terra per "sfamare" un americano rispetto ad un europeo? O forse ti riferisci al dato medio del 1,4 come soglia di sostenibilità? Per conto mio ti possi dire che non ci tengo ad arrivare al modello produttivo-consumistico degli americani, per carità. Ti ricordo tra l'altro che quei livelli produttivi sono sostenuti dal livelli di consumo, indotti da modelli assolutamente patologici, ingozzati di pubblicità e sprechi di
ogni sorta. SuperSizeMe!!

Mi spiace che tu voglia bollare come "simili idiozie" argomenti che sono sotto gli occhi di tutti, e che prima o poi, lo dici anche tu, dovremo fare i conti con l'esaurimento di parte di risorse naturali.
Considerali argomenti con i quali confrontarsi, con i quali dialogare con chi non la pensa come te. Mi sarei aspettato da parte tua cosiderazione meramente più economiche, che dimostrassero l'inattuabilità di una decrescita generalizzata dei sistemi economici occidentali, ma così non è stato, hai preferito una strada che sinceramente non comprendo e che mi fa
domandare su quali basi possiamo impostare sulla rivista un pensiero soggettivo unificante capace di combattere il germe del capitalismo.

Potresti rispondere a quest'ultima domanda?

Messaggio 19 – Giulio Cesare, 5 giugno ’06

>... Se il buon Carletto diceva che lo scontro è tra le due classi contrapposte, in Latouche il contenzioso tra chi è? ...

Nella ricostruzione Gatteiana del marxismo italiano, fatta all'ultima conferenza del "maggio filosofico", il filone ortodosso (Stalin+Gramsci, giù fino a Berlinguer) vedeva lo scontro come l'umanità contro i pochi cattivi (bignamizzazione di una bignamizzazione). Se poi si considera che il filone eterodosso di Della Volpe (da non confondere con Volpi di cui si parla in thread intrecciati con questo) (Colletti-Panzieri-Tronti-Negri: operaismo), mediato dal secondo Tronti (a parte la deriva del secondo Negri) passa dall'"autonomia del politico" all'"autonomia della politica" e quindi riconfluisce sostanzialmente nel primo filone, si capisce che una visione alla Latouche dello scontro può essere compatibile con il marxismo italiano, IMHO.
E Cacciari c'entra anche qui: forse dovremmo ibridare i due thread.
Vorrei approfondire la ricostruzione, perché, come sempre, c'ero. 😉
Da un lato una conferma: Il Compagno Sandro, sedotto da Tronti, nell'"epistolario americano" (ero negli USA e di nuovo era il '78), mi scriveva del "nostro maestro di prassi" quando voleva riferirsi a Stalin.
Dall'altra una smentita: io che mi opponevo al secondo Tronti, dove mi collocavo? Vabbè che ero IL Compagno Empirista, purtuttavia avevo dei "compagni di strada" e non erano della deriva Negriana, proto-smaterialista; da dove venivano? "Sento" che ci manca un pezzo, ma non posso fidarmi dei miei ricordi, quale cellula, fosse pure corticale,
del corpo smembrato del Soggetto Collettivo, non più di quanto ci si possa fidare della "perle di consapevolezza" dell'Imperatore-Dio incorporate nei vermi delle sabbie dopo il suo smembramento alla fine del ciclo di Dune di
Farmer.
"Passa il sogno perduto di ricomposizione / ma come ricomporre un bacio, un'emozione" (Zombi di tutto il mondo, unitevi - Spettacolo teatrale di Gianfranco Manfredi e Riky Gianco)
Vorrei ripartire da zero, con gli strumenti della "storia del tempo presente" (seguito seminario di Marchetti) per ricostruire la vicenda: credo che la fine degli anni '70 sia stato uno snodo cruciale da tutti i punti di vista e sia stato rimosso, parlandone molto e dicendo Nulla.
Interessati?
Chi vuol cominciare riassumendo collettivamente la conferenza di Gattei sul testo di Corradi?
Progetto:
Fase 1: fissare ciò che abbiamo
1) Recensione del testo
2) Riassunto mio e di chi vuole della conferenza
3) Revisione di Gattei
4) Pubblicazione recensione ed articolo
5) Dibatito, altri articoli, ecc.
Fase 2: ricerche ulteriori
7) Esiste una terza filiera?
...
E se facessimo le recensioni di tutti i testi del "maggio filosofico"? o meglio del "maggio filosofico" stesso? Ho sempre considerato un gran spreco non arrivare ad un opuscoletto a conclusione dell'iniziativa, da aver pronto per l'anno seguente, senno si ricomincia sempre da capo collettivamente, al di là dei ricordi personali. Ho paura di essere l'unico
ad aver vissuto tutte le iniziative Marxiane: dal "Gruppo di Lettura del Capitale" alla "Casa della Cultura", la stampa dei "Capitalini", l'incontro con Gattei, i primi cicli di conferenze presso la sede delle RdB, fino ad arrivare al primo "Maggio Filosofico", ed ho tutto il materiale fino al '97, quando cessò di funzionare l'organizzazione militante di riferimento, poi vado a macchie di leopardo. Riuscite a documentare qualcosa dal '97 in poi? Anche solo gli opuscoletti distribuiti in sala son meglio di niente.
Penso sia ora di tornare a scrivere qualcosa collettivamente, su Marx, e farlo circolare dove serve di più. Vi porterò una reliquia, un "Capitalino" originale, magari quello con le note a mano di Gattei, appena l'archivio stocastico me lo produce, per far capire cosa intendo.
Ma che anno è oggi? Mamma mia come è tardi! Non so se sarà possibile.

Messaggio 20 – Andrea, 6 giugno ’06 (6/6/06!)
Premesso che "mi paiono una gabbia di matti" precedeva le argomentazioni "razionali", veniamo al merito.

Mi pare essenziale partire dalla fine. Doly mi dice:

>Considerali argomenti con i quali confrontarsi, con i quali dialogare con chi non la pensa come te.

Speravo che non fosse necessario, ma, come ho già detto, la diffusione di un discorso così irrazionale (così ingentilisco le "idiozie") è così sorprendentemente vasta, che sento l'obbligo morale di dovermici
confrontare.

>Mi sarei aspettato da parte tua considerazione meramente più economiche, che dimostrassero l'inattuabilità di una decrescita generalizzata dei sistemi economici occidentali, ma così non è stato, hai preferito una strada che sinceramente non comprendo e che mi fa domandare su quali basi possiamo impostare sulla rivista un pensiero soggettivo unificante capace di combattere il germe del capitalismo.

Anche questo tipo di risposte pensavo di averle già date nelle mie precedenti e-mail. Ma visto che non è stato sufficiente, tenterò una sorta di immane "risposta fiume", più esaustiva possibile. Ti (vi) dico subito che non penso di combattere il capitalismo postulando un ritorno al feudalesimo, agli antichi imperi o all'uomo delle caverne. Detto questo, la risposta sull'uscita del capitalismo è alla fine della e-mail.

E veniamo alle varie questioni.

1) Questione ecologia.
Se io fossi davvero uno degli scienziati collegati all'amministrazione americana, ti potrei ribaltare la tesi secondo cui:
>C'è un punto 0: dammi un elemento oggettivo, ricerca scientifica qualificata che dimostri che il nostro ecosistema non >sia in pericolo sia sul breve-medio che lungo periodo. A riguado il parere scientifico è quasi unanime. Si discostavano >solo un gruppo di scienziati collegati all'amministrazione americana, nel periodo firma protocollo Kyoto. Vedi un po' >tu...

in questo modo:
"C'è un punto 0: dammi un elemento oggettivo, ricerca scientifica qualificata che dimostri che il nostro ecosistema SIA in pericolo sia sul breve-medio che lungo periodo".
Non sono convinto che su questo ci sia un parere scientifico quasi unanime. Può darsi che mi sbagli, se così fosse dammi (datemi) dei riferimenti più precisi...

Siccome, però, non sono uno degli scienziati collegati all'amministrazione americana, ribadisco che sono molto sensibile alle tematiche ambientali, al punto che mi piacerebbe dibattere di questo, e non della decrescita. Ad esempio, Giorgio aveva proposto di trattare il tema comune "Energia". Non ne so molto, ma sarebbe interessante dibatterne insieme.

Ribadisco quindi per la centesima volta: la soluzione del problema ambientale NON implica la decrescita; al massimo PUO' comportare un rallentamento della crescita. Se così fosse, SOSTENGO CHE E' OPPORTUNO PERSEGUIRE UNO SVILUPPO SOSTENIBILE, ANCHE SE CIO' DOVESSE COMPORTARE UN RALLENTAMENTO DELLA CRESCITA. Tuttavia, capirete che UN CONTO E' PERSEGUIRE UNO SVILUPPO SOSTENIBILE, UN CONTO E' POSTULARE LA DECRESCITA! Su questo punto cruciale, spero di essere stato chiaro questa volta.
Facciamo un esempio: uno che sostiene il perseguimento di uno sviluppo sostenibile sostituisce il suo scaldabagno elettrico o a metano con dei pannelli solari (e così facendo fa crescere il PIL). Uno che sostiene la decrescita, invece, o si fa la doccia fredda, o addirittura non si lava, così non consuma acqua!!!
E ancora: uno che persegue uno sviluppo sostenibile cerca di muoversi, ove possibile, con bicicletta, a piedi o in treno. E se usa un mezzo pubblico, contribuisce a far crescere il PIL. Uno che sostiene la decrescita, invece, sta a casa e non si muove (o al massimo coltiva l'orto!).

Se la coscienza ecologista dei dirigenti di Doly, li spinge a sostenere uno sviluppo sostenibile, me ne compiaccio.

2) Questione antropologia (culturale).
Premesso che il "fare, costruire e brigare" non è una condanna, ma è, come avevo argomentato, la peculiarità dell'uomo in quanto essere culturale, il conflitto è invece una dimensione "pre-culturale" e costituisce banalmente
un problema, perché mette a repentaglio l'esistenza della specie.
Infatti, anche gli animali entrano in conflitto ("fanno la guerra"), ma la soluzione per loro è mediata istintualmente (il territorio marcato, la gerarchia riconosciuta del branco, ecc.). Certo, anche gli animali della stessa specie si aggrediscono l'un l'altro (per lo più per la conquista del partner), ma il conflitto è regolato istintualmente. L'uomo, in quanto essere culturale, ha fatto certamente più fatica a regolare il conflitto. Si è comunque dotato di istituzioni (strumento culturale per eccellenza) che fanno "economia di violenza". Ad esempio, il fatto che discutendo (ancora ;-)) non ci pigliamo a pugni è per lo più il frutto di convenzioni culturali. Le leggi ed i tribunali, ancora, regolano i conflitti pacificamente, e la "terzietà" del giudice dovrebbe essere la garanzia che non ci sia vendetta (giustizia sommaria o personale). Tema evidentemente di stringente attualità, quella dell'indipendenza del potere giudiziario...
Ecco perché, dunque, non siamo condannati alla guerra infinita. Certo, se poi ci sono degli arretramenti della civiltà, sta a noi portare avanti le giuste battaglie culturali!

Incrocio per un attimo i due thread, come dice Giulio, per dire che quanto ho appena affermato non mi pare certo nichilista... Anzi, questa idea degli antisviluppisti di non fare niente, questa sì che mi pare davvero nichilista!!
Vabbé!

Ancora, sull'equazione produzione=felicità. Il premio Nobel Amartya Sen ha elaborato un indice di benessere che tenga conto di tanti parametri e non solo del PIL. Innanzitutto, non conta solo quanto cresce il PIL, ma anche come viene distribuito. In secondo luogo, conta quanta parte del PIL sia destinata in istruzione, welfare, ecc.; in terzo luogo, contano le condizioni sanitarie, ambientali, le opportunità di mobilità sociale, ecc. Ci sono forse altri parametri che ora mi sfuggono. Quello che è importante, però, è che se la ricchezza decresce, tutto il resto diventa molto più complicato, se non impossibile. Insomma, un conto è, ad esempio, tagliare le spese militari e destinare quelle risorse per i servizi sociali. Un conto è auspicare che le risorse economiche non crescano, cosicché nulla potrà essere fatto!! Posto che ci
siano poche risorse naturali, un conto è cercare un aumento della produttività (crescita tecnologica), in modo da produrre di più con meno risorse; un conto è dire "Ok, non ci sono risorse, fermiamoci e buonanotte!"

A questo proposito, vorrei fare un chiarimento semantico sulla parola "risorsa": le risorse non sono solo quelle naturali, ma sono anche i beni capitali e quelli di consumo; ci sono poi le risorse umane e le risorse finanziarie. Le "risorse" non sono dunque "date" in natura, se non in minima parte. Le risorse sono pertanto per lo più... prodotte!!! E se decidiamo di non produrre più, vorrà dire che avremo ancora meno risorse! E' ciò che sta accadendo all'Italia negli ultimi anni è emblematico: la scarsa crescita ha privato il Paese di risorse per i salari pubblici e per il welfare, oltre che per pagare il debito pubblico!

3) Questione "ettari di terra" (articolo di Ellul).
Non ho messo in dubbio che "occorrano molti più ettari di terra per "sfamare" un americano rispetto ad un europeo" (non lo so, ne prendo atto). Ho detto che, se uno parla di disuguaglianze, allora dovrebbe citare la varianza, non la media. Quando mi si dice che "Un cittadino degli Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre", vorrei capire se tutti sfruttano 9,6 ettari, oppure qualcuno ne sfrutta 19,2 e qualcun'altro 0. In alternativa alla varianza, esiste una misura di disuguaglianza che è l'indice di Gini [se l'indice è pari a 0 vi è perfetta equidistribuzione; se l'indice è pari a 1, allora vi è massima disuguaglianza: uno ha tutto, e gli altri non hanno niente]. Se si parla di disuguaglianza bisognerebbe usarlo, e fare dei confronti anche col passato.
Insomma, se si fa un discorso lo si deve argomentare razionalmente, non si possono buttare lì dei numeri a casaccio...

4) Questione economica, anti capitalistica, legata a "i livelli di consumo, indotti da modelli assolutamente patologici, ingozzati di pubblicità e sprechi di ogni sorta. SuperSizeMe!!".
L'idea del capitalista-bue di fare profitto vendendo prodotti facilmente deperibili o che vengano sostituiti in fretta va contro la crescita economica. In questo modo, infatti, il mercato si satura in fretta, è una strategia di breve periodo senza sbocco, alla pari di quella, sempre di moda per il capitalista-bue, di tagliare i salari o di allungare la giornata lavorativa.
Se parliamo invece di beni di lusso, di nicchia o d'élite, allora avevo già detto in una precedente mail che questi beni vanno forte nei momenti di crisi, quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi.

Ribadisco un concetto fondamentale già espresso nella mia e-mail del 24 maggio scorso:

"un conto è la CRESCITA (il PIL, tanto per intenderci), e un conto è il PROFITTO, che è solo UNA PARTE del PIL. E
generalmente, checché ne dicano i monetaristi, la CRESCITA del PIL è CORRELATA INVERSAMENTE CON LA QUOTA DEI PROFITTI. Nei mitici "golden thirties" (dal 1948 al 1973), il PIL in Europa è cresciuto più di quanto non fosse cresciuto nei 150 anni precedenti: ma in proporzione, sono soprattutto i salari che sono cresciuti rispetto alla rendita ed al profitto. Viceversa, negli ultimi 15 anni (fase di crisi e di ristagno economico particolarmente acuta) sono soprattutto il profitto e la rendita che sono cresciuti, a danno dei salari. Allora qual è il problema? Il PIL o il profitto?! No, perché se si tratta di spingere verso la "caduta tendenziale del saggio di profitto", allora sì che mi verrebbe in mente un vecchietto con la barba che è vissuto in Germania nel corso del XIX secolo...."

Per rendervene conto, leggetevi la lunga e bella analisi di Marcello De Cecco su "Affari&Finanza" di ieri (5 giugno), con tutti i dati relativi alla minore crescita ed alla maggiore quota di profitti e di rendita in Italia negli ultimi dieci anni.

Se ancora non vi basta, guardate le indagini sui redditi degli italiani fatta biennalmente dalla Banca d'Italia a partire dagli anni '90: l'indice di Gini sulla ricchezza detenuta dagli italiani, è salito da 0,587 a 0,619 dal 1991 al 2002.

Ecco la mia via per uscire dal capitalismo: aumentare la distribuzione del reddito, a favore dei salari, ed a scapito del profitto e della rendita.
Quando la quota di profitti e rendite saranno (tendenzialmente) a zero, ecco allora che il capitalismo è finito; ma, per dirla con Gattei, non avremo raggiunto il comunismo, bensì il cuccagnismo: orario zero, salario intero! E a produrre saranno le macchine...

Spero questa volta di essere stato abbastanza chiaro, anche perché più di così non ce la faccio "fisicamente". Non pretendo che condividiate le mie argomentazioni, ma spero che le abbiate almeno capite, e che, semmai, le contestiate nel merito. Sarebbe, questo, davvero un bel salto in avanti nel dibattito.

Versione PDF

L’approvazione dell’ultima manovra finanziaria è stata caratterizzata, come noto, da un lungo ed a tratti logorante dibattito, sia all’interno della maggioranza di governo, sia tra l’opinione pubblica. Uno dei punti centrali della discussione ha riguardato la seguente questione: è stato utile e necessario predisporre questa imponente manovra finanziaria (quasi 40 miliardi di Euro, alla fine) per far rientrare al di sotto della sospirata soglia del 3% il rapporto tra deficit e PIL entro il 2007 (così come aveva concordato il precedente governo Berlusconi con la Commissione Europea a fine 2005), oppure sarebbe stato meglio adottare una manovra più leggera, diluendo il rientro del deficit in almeno due anni, al fine di destinare così maggiori risorse al welfare ed allo sviluppo?

Per rispondere con cognizione di causa a questa domanda è opportuno ripercorrere brevemente sia la genesi del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità che impongono, tra le altre cose, i noti parametri di convergenza sui rapporti tra deficit e PIL (che deve essere al di sotto del 3%), e tra debito e PIL (che deve essere inferiore al 60%), e sia la genesi dell’ingente debito pubblico italiano accumulato negli ultimi trent’anni. Se per un verso, infatti, il percorso di convergenza verso l’Unione Monetaria intrapreso dall’Italia nel ’92 ha rappresentato un’importante fonte di legittimazione per il risanamento finanziario operato dai governi della cosiddetta “Seconda Repubblica”, dall’altro va ricordato che oggi il debito pubblico italiano è stabilizzato, mentre l’Unione Monetaria costituisce un contesto economico-finanziario assolutamente stabile. Appare necessario, pertanto, rivedere gli arbitrari vincoli posti dal Patto di stabilità per permettere ai governi nazionali, compreso quello italiano, di destinare maggiori risorse alla crescita ed allo sviluppo economico. Origini e motivazioni politiche del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità Il “Patto di Stabilità e Crescita” (un ossimoro che è già tutto un programma, tant’è che normalmente viene nominato soltanto col primo dei due sostantivi…), detto anche “Trattato di Amsterdam”, fu sottoscritto nel ’97 al fine di evitare un precoce fallimento del percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel ’92 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht. Preso atto, infatti, che alla fine del ’95 l’unico Stato in grado di rispettare i parametri di convergenza previsti nel Trattato di Maastricht era il Lussemburgo, si ritenne necessario rinegoziare le condizioni di accesso degli Stati membri alla terza fase, e quindi all’Unione Monetaria Europea (UME). Così come avvenne alcuni anni prima a Maastricht, le posizioni politiche che caratterizzarono il dibattito tra gli Stati membri ad Amsterdam furono sostanzialmente due: la prima, quella sostenuta soprattutto dalla Germania (ed in special modo dalla sua Banca Centrale più che dal suo governo), prevedeva che i parametri non dovessero essere rinegoziati, e che dovessero essere interpretati in modo rigido, al fine dell’ammissione dei Paesi all’UME, anche a costo di non far partire l’integrazione monetaria, oppure di creare un’Unione Monetaria ristretta a pochi Paesi. La seconda posizione, sostenuta soprattutto dalla Francia e dai Paesi mediterranei, prevedeva, invece, che per l’ammissione all’UME tali parametri di convergenza dovessero essere interpretati in modo flessibile, anche attraverso un giudizio politico sullo “sforzo” e sulla “buona volontà” dimostrati dagli Stati membri. È evidente che i sostenitori di questa seconda opzione volessero un’UME quanto più larga possibile, ed un intervento politico coordinato da parte delle Istituzioni Comunitarie, sia per agevolare la convergenza delle politiche di bilancio degli Stati membri, sia per compartecipare, congiuntamente all’organo tecnico (la BCE), al governo della moneta unica. È altrettanto evidente, invece, che i sostenitori della prima opzione, specialmente la Bundesbank e buona parte dell’opinione pubblica tedesca, temessero l’ingresso dei Paesi mediterranei nell’UME, e pretendevano che l’interpretazione dei parametri fosse così rigida da arrivare al punto di pregiudicare, se necessario, l’intero progetto d’integrazione. Essi temevano, infatti, che tali Paesi, ritenuti “fisiologicamente lassisti”, e offensivamente denominati “PIGS” (ovvero “maiali”, ma anche acronimo di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), avrebbero provocato nell’UME forti tensioni inflattive, i cui costi sarebbero stati scaricati sui Paesi “virtuosi”, al punto da pregiudicare la stabilità stessa della moneta unica. Una posizione intermedia, caldeggiata dal cancelliere tedesco Kohl che, a differenza dei suoi connazionali tecnocrati, era fortemente determinato nella realizzazione dell’UME, prevedeva inizialmente la realizzazione di una “mini-unione”, ribattezzata gergalmente “Framania” e comprendente soltanto i Paesi “virtuosi” (ovvero Francia, Germania, ed i loro “Paesi-satellite”), in cui gli altri Paesi sarebbero potuti entrati in un secondo momento, dopo “aver messo in ordine le proprie finanze pubbliche”. Tale proposta fu destinata a cadere rapidamente, sia perché politicamente inaccettabile per i Paesi esclusi, e sia perché, soprattutto, alcuni di essi (in particolare Spagna e Portogallo) dal ’96 in poi si allinearono rapidamente ai valori previsti dai parametri di Maastricht. Con il “Patto di Stabilità” gli Stati membri raggiunsero un compromesso molto favorevole per i “rigoristi”: in realtà, essi dovettero concedere la fissazione di una data certa per l’avvio della terza fase del progetto d’integrazione previsto a Maastricht (quella in cui sarebbero state definite le parità di cambio irreversibili tra le valute europee, ed in cui avrebbero preso vita la moneta unica e la Banca Centrale Europea (BCE)), che fu il 1° gennaio 1999; e dovettero concedere, inoltre, che l’accesso all’UME non fosse preventivamente negato ad alcuno Stato membro. In cambio, però, essi ottennero un forte irrigidimento del parametro riferito al rapporto tra deficit e PIL. Per rendere possibile l’accesso all’UME a tutti i Paesi, infatti, si dovette rendere più elastico il parametro relativo al rapporto tra debito e PIL, poiché in caso d’interpretazione restrittiva molti Paesi, tra cui Italia, Belgio e Grecia, ma anche Spagna, Irlanda, Austria e persino gli stessi Paesi Bassi, ritenuti tra i Paesi modello della stabilità monetaria, ed in cui, non a caso, sono stati sottoscritti questi Trattati, sarebbero stati estromessi dall’Unione Monetaria: la riduzione del debito, infatti, è obiettivo realizzabile soltanto nel lungo periodo. In cambio di queste concessioni, però, fu stabilito che, qualora il debito pubblico di uno Stato membro dovesse essere superiore al 60% del suo PIL, esso debba “diminuire sufficientemente fino al valore di riferimento, ad un tasso soddisfacente” (Art.104C). Per rendere vincolante questa prescrizione, e non una mera dichiarazione d’intenti, i “rigoristi” ottennero dal Patto l’imposizione ai Paesi membri di perseguire il pareggio di bilancio, eliminando, quindi, la possibilità di poter registrare un deficit, ancorché contenuto entro il 3% del PIL, così come si era inizialmente stabilito a Maastricht. In deroga a ciò, il Patto ha previsto comunque un margine di tolleranza fino al 3%, a condizione però di recuperare tale deficit negli anni di congiuntura positiva. In ogni caso, questo parametro non doveva e non dovrà mai superare il 3% del PIL, pena una pesante sanzione pari allo 0,2% del PIL. Se poi questo parametro dovesse superare il 4%, allora la sanzione aumenterebbe fino allo 0,5% del PIL! Paradossalmente, quindi, un Paese che ha già grosse difficoltà a contenere il proprio deficit verrebbe ulteriormente penalizzato con multe di ingente entità (fino a mezzo punto di PIL!). Difetti del Patto di Stabilità I vincoli imposti dal Patto di stabilità hanno il fondamentale difetto di agire, in caso di congiuntura negativa, in misura fortemente prociclica. Si noti, infatti, che un compromesso tra il mantenimento delle finanze pubbliche in equilibrio e la possibilità di adottare una politica anticiclica, è previsto perfino nell’austera Grundgesetz, la Legge Fondamentale Tedesca. Questo compromesso consiste in una “regola aurea” che prescrive il perseguimento del pareggio di bilancio, escludendo però dalle spese il conteggio degli investimenti: ovvero deve essere E>U-I, ossia E+I>U, dove E sono le entrate pubbliche totali, U è la spesa pubblica, e I è la spesa pubblica per investimenti. Questa regola non è molto diversa dal parametro sul deficit fissato dal Trattato di Maastricht, poiché la spesa per investimenti (I) è normalmente attorno al 3% del PIL. Ma c’è una differenza fondamentale: nel caso della re
gola aurea tedesca, infatti, se vi è una stagnazione economica il governo può aumentare a piacere la spesa per investimenti, in funzione anticiclica, fermo restando la parità delle spese correnti con il totale delle entrate. Nel caso, invece, del Trattato di Maastricht, se interviene una fase di stagnazione il governo non può aumentare a piacere gli investimenti, pur avendo temporaneamente a disposizione un margine del 3% di PIL, se non riducendo la spesa di parte corrente o aumentando le entrate. Si ricorda, peraltro, che il Patto di stabilità prevede che questo margine del 3% sia da considerarsi come “eccezionale”, e che normalmente i governi debbano perseguire il pareggio di bilancio, per di più senza escludere gli investimenti, come prevede invece la regola aurea. Inoltre, come ci ricorda Bruno Jossa, per evitare il rischio di incappare nelle famigerate sanzioni, i governi devono necessariamente perseguire l’obiettivo di mantenere il proprio deficit al di sotto dell’1% del PIL, poiché “l’esperienza mostra che le deviazioni standard tra deficit congiunturali e deficit strutturali sono di circa il 2%, sicché è possibile che un Paese che parta con un deficit dell’1% si trovi ad avere un deficit del 3% a seguito di una serie di shock negativi”. Il Patto di Stabilità prevederebbe, peraltro, l’esenzione automatica dalle sanzioni per i Paesi trasgressori, qualora il PIL diminuisca di almeno il 2% per quattro trimestri consecutivi, una condizione che nella storia europea degli ultimi 150 anni si è verificata in pochissimi casi. Qualora, invece, il PIL dovesse subire una riduzione di almeno il 2% per tre trimestri consecutivi, l’esenzione dovrebbe essere subordinata ad un voto del Consiglio Europeo. In realtà, nel caso della prolungata stagnazione (ma non recessione!) che ha colpito l’Europa nei primi anni duemila, il Consiglio Europeo è intervenuto, nel 2003, per impedire che tali sanzioni fossero comminate ai Paesi più grandi dell’UE che avevano violato il Patto: Germania e Francia! L’anno prima, invece, a Portogallo e Grecia furono comminate tali sanzioni. Anche nella UE, alcuni Paesi sono più uguali degli altri… Motivazioni economiche del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità In un processo d’integrazione monetaria del tutto peculiare, come è quello europeo, in cui gli Stati aderenti mantengono la sovranità nazionale in tema di politica di bilancio, il vincolo relativo alla stabilizzazione dei debiti pubblici nazionali al di sotto di una certa soglia dovrebbe avere la primaria finalità di fornire una garanzia reciproca ai Paesi aderenti che i contraenti siano reciprocamente solvibili. Questo problema, infatti, non si porrebbe nell’ipotesi, oggi quanto mai improbabile, che vi fosse un’autorità politica centrale (un governo europeo), magari a capo di una federazione di Stati, responsabile a livello unitario di un bilancio comunitario di dimensioni ben più grandi di quello che attualmente gestisce la Commissione Europea, e dotato anche di una leva fiscale. In tal caso, infatti, saremmo di fronte ad una vera e propria integrazione politica, in cui sarebbe il governo centrale ad avere la principale responsabilità della gestione del debito pubblico, e non più gli Stati nazionali. Comunque, anche senza considerare questa ipotesi piuttosto irreale, già oggi l’adesione all’UME da parte di un Paese comporta automaticamente la perdita del controllo sulla propria Banca Centrale, cosicché non è più possibile creare inflazione/svalutazione inattesa, al fine di ridurre (implicitamente) il valore del proprio debito. Inoltre, aderendo alla moneta unica, i Paesi non devono più nemmeno far fronte ai rischi di speculazione sulla proprie valute, cosicché, anche nel caso di eccessiva emissione di debito, l’esperienza di questi anni ha dimostrato che i tassi d’interesse non subiscono alcun rialzo. L’unica motivazione che rimane, dunque, per giustificare l’imposizione di una soglia al debito pubblico di uno Stato membro, è il rischio di insolvenza, che potrebbe verificarsi nel caso di accumulo eccessivo di debito. Ma anche questa ipotesi appare piuttosto remota, sia perché i Paesi membri dell’UME non hanno più la possibilità di finanziare il disavanzo creando moneta, e pertanto sussiste già un vincolo implicito alla creazione di deficit eccessivi, e sia, soprattutto, perché tali Paesi sono in grado di controllare un’ampia base imponibile interna. Inizialmente, cioè a Maastricht, i vincoli sui conti pubblici furono ispirati alle tipiche argomentazioni della public choice e della rational choice, secondo cui i governi nazionali agirebbero tutti in modo fiscalmente “irresposabile”, sia perché, come si è già detto, i governi con un debito troppo elevato potrebbero avere interesse a creare un’inflazione inattesa, provocando un’erosione del valore reale delle obbligazioni da loro emesse, guadagnandoci (a scapito dei detentori dei titoli di debito pubblico) , sia perché l’obiettivo di una coalizione di governo, che sarebbe quello di venire rieletta, è a breve termine (scadenze elettorali): esse avrebbero, pertanto, interesse ad aumentare la spesa pubblica (e quindi il deficit ed il debito) per ridurre la disoccupazione oltre il suo livello “naturale”, anche se – si sostiene – per fare questo è necessario che provochino una spinta inflattiva “a sorpresa” e, nel lungo termine, operazioni del genere comporterebbero un aumento d’inflazione, mentre la disoccupazione tornerebbe a crescere al suo livello “naturale”. Insomma, secondo queste tipiche argomentazioni fatte proprie dalle teorie neomonetariste, i governi democraticamente eletti non sarebbero “fisiologicamente” in grado di svolgere una buona politica economica, e per questo “il governo europeo si avvicina, fino a diventare indistinguibile, a quello di un despota illuminato, al riparo dalle pressioni popolari, ma alla ricerca del bene comune attraverso l’applicazione di una dottrina rigorosa – il liberismo – superiore a tutte le altre in termini di efficienza economica”. Per questo stesso motivo, inoltre, la BCE non può finanziare il debito pubblico degli Stati membri (la cosiddetta No-Bailout Rule), e non può nemmeno ricevere istruzioni né dai governi nazionali, né dalla Commissione Europea. Così vincolati (e senza tenere conto del proprio elettorato, che in democrazia dovrebbe essere il primo dei vincoli che guida l’azione di un governo), i governi nazionali si trovano costretti, tra l’incudine della BCE ed il martello dei vincoli imposti dal Patto di stabilità, a non poter più scegliere liberamente la loro politica economica. Dopo l’avvio dell’UME nel ’99, la scelta di mantenere il vincolo sul debito pubblico, sulla scorta di quanto si è detto, appare dunque del tutto eccessiva. Soprattutto, appare del tutto arbitraria ed ingiustificata la sua definizione numerica (60% del PIL), così come quella per il deficit (3%). Questi numeri, infatti, sono stati desunti, sulla base di ipotesi del tutto arbitrarie, dalla nota “formula di determinazione del disavanzo di bilancio necessario per stabilizzare il debito pubblico: d=gD, dove d è il rapporto tra deficit e PIL che garantisce, in stato di crescita costante del PIL al tasso nominale g, che il rapporto tra debito e PIL si stabilizzi al livello D”. Infatti, premesso che la stabilità monetaria è alla base di tutta l’impalcatura del Trattato di Maastricht, e che tale stabilità è esplicitata nel Patto di Stabilità in un’inflazione non superiore al 2%; posto che nel ’91 (anno della negoziazione del Trattato di Maastricht) il debito pubblico medio in UE era pari al 60% del PIL; posto che nella seconda metà degli anni ’80, la crescita media annua del PIL reale in UE era stata pari a circa il 3%, e che pertanto la crescita nominale auspicata dai redattori del Trattato dovesse essere pari al 5% annuo (cioè 3%+2% di inflazione); tutto ciò premesso, si ipotizza, in modo del tutto arbitrario, che queste condizioni possano sussistere sempre ed ovunque. Pertanto, dall’equazione suesposta si ricava che
la sostenibilità di un debito pubblico pari al 60% del PIL con una crescita nominale annua al 5% è garantita da un deficit pubblico contenuto entro il 3% del PIL (infatti, 0,03 = 0,05 x 0,6). Si può facilmente evincere, dunque, che la definizione numerica dei vincoli posti ai deficit ed ai debiti pubblici nazionali sia assolutamente arbitraria, priva di alcuna base scientifica. Il caso italiano Per quanto riguarda l’Italia, come noto, il soddisfacimento dei parametri di convergenza è stato particolarmente problematico a causa dell’imponente debito pubblico, che nel ’91 era pari a circa il 100% del PIL, e che tre anni dopo, nonostante i vincoli posti dal Trattato, toccò il suo massimo livello a quota 124,8% del PIL. Le origini di questo debito sono da ricercarsi, brevemente, nella storia economica italiana a partire dagli anni ’70. Le sfide poste dagli eventi internazionali di quel decennio all’economia italiana, dalle crisi petrolifere alla fine del sistema di parità monetarie denominato dollar standard, dal fallimento del serpente monetario alla maggiore concorrenza internazionale, dall’elevata inflazione determinata in parte dalle dinamiche salariali, ed in parte da politiche monetarie non restrittive hanno provocato una iniziale crescita del debito pubblico italiano, dal 37,9% del PIL del ’70 al 61,7% del ’78. Tale crescita, tuttavia, è risultata essere piuttosto contenuta, nonostante l’elevato deficit pubblico, proprio grazie all’elevata inflazione che erodeva il valore del debito emesso. Questa situazione ha permesso, da un lato, di mantenere “a galla” l’economia italiana, grazie alle svalutazioni competitive della lira, e dall’altro di finanziare sia un ramificato ed esteso sistema di corruzione, che alcuni autori hanno chiamato “keynesismo delinqueziale”, sia un sistema di welfare di tipo mediterraneo, ovvero sbilanciato verso la tutela della vecchiaia e dell’invalidità, a scapito delle altre misure di welfare, e sbilanciato a favore di alcune categorie professionali forti; caratteristiche aggravate, peraltro dall’illegalità e dalla scarsa efficienza. Dalla fine degli anni ’70, e per tutti gli ’80, si verificò in Italia una sorta di sdoppiamento delle scelte di politica economica: da un lato, infatti, vennero adottate scelte volte chiaramente ad una stabilizzazione monetaria del Paese (ingresso della lira nello SME, varo della prima legge di programmazione economica, divorzio tra Banca d’Italia e governo), ma dall’altro proseguì senza sosta la crescita della spesa pubblica, sia per i crescenti interessi sul debito, sia a causa della corruzione dilagante. La spesa pubblica, infatti, crebbe dal 41,7% del PIL nell’80 al 57,7% nel ’93. A fronte di questa impennata, sono cresciute anche le entrate, e con esse la pressione fiscale, ma non abbastanza, ovviamente, da riuscire a compensare l’ingente aumento della spesa: se nell’80, infatti, le entrate totali erano pari al 34,5% del PIL, nel ’93 queste toccarono il 47,4%. Negli stessi anni, la pressione fiscale salì dal 32% al 43,4%. Gli effetti di queste scelte furono, da un lato, un aumento dei tassi d’interesse, in termini reali, dal –3,5% del ’79 al 5,1% dell’87, ed una conseguente diminuzione dell’inflazione, dal 19% dell’81 al 6,5% dell’89, ma dall’altro un aumento della disoccupazione, dal 6% di media degli anni ’70 all’11,8% di fine anni ’80, e del debito pubblico, dal 58,2% del PIL dell’80 al 100,8% del ’91. Questo tipo di politica economica lassista è stata possibile anche perché necessaria, negli equilibri della guerra fredda, a mantenere e garantire un vasto e ramificato sistema, per lo più illegale, di produzione del consenso ai partiti di maggioranza, impedendo così l’accesso al governo del PCI, nell’ambito di un quadro politico che è stato brillantemente definito “bipartitismo imperfetto”. Ciò che più è interessante, inoltre, è il fatto che tale situazione ha provocato nel PCI, a partire dallo “strappo” con l’URSS e dalla “svolta democratica” operata da Berlinguer negli anni ‘70, una forte sensibilizzazione nei confronti del risanamento finanziario, in opposizione al malcostume ed alla corruzione dei partiti di maggioranza (la cosiddetta “questione morale”). E non è un caso, infatti, che alcuni dei provvedimenti sopra indicati (ingresso della lira nello SME, autonomia della Banca d’Italia nei confronti del governo e prima legge finanziaria, la 468/78) furono proprio adottati, o comunque maturarono, negli anni dei governi di solidarietà nazionale presieduti da Giulio Andreotti, con l’appoggio del PCI; così come non sorprenderà il fatto che il perseguimento del risanamento finanziario, benché sia sempre stato uno dei temi classici della scuola liberale ottocentesca, sia divenuto l’obiettivo strategico, negli anni ’90, proprio dalla coalizione di centrosinistra guidata dal partito erede del PCI. Negli anni ’90, come noto, la crisi dei vecchi partiti o, come si dice in gergo, della “Prima Repubblica”, non fu soltanto provocata dalle inchieste di “Mani pulite” sulla loro corruzione, ma un ruolo importante fu giocato proprio dall’ingente debito pubblico, che nei primi anni ’90, come si è visto, stava raggiungendo livelli tali da mettere in serio rischio la solvibilità dello stesso. Per un verso va ricordato, in effetti, che furono il Presidente della Repubblica Cossiga ed il Presidente del Consiglio Andreotti a sottoscrivere il Trattato di Maastricht, probabilmente convinti che l’imposizione di un forte vincolo esterno potesse essere l’unico modo per intraprendere una “svolta risanatrice”, nel tentativo di contenere il deficit ed il debito pubblico italiano, e legittimando così la necessità di adottare “un po’ di sacrifici” per gli italiani; nello stesso tempo, però, fu proprio l’esplosione dei primi casi di corruzione (da Mario Chiesa nel febbraio ’92, agli ex sindaci socialisti di Milano, Tognoli e Pillitteri nell’aprile dello stesso anno) a provocare una prima cospicua erosione di consensi ai partiti tradizionali, e la comparsa di nuove forze “anti-sistema” come la Lega Nord, sia in occasione delle elezioni politiche del 5 e 6 aprile ’92, sia nelle successive consultazioni amministrative. Persino il Presidente Cossiga, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, aveva fiutato la necessità di una profonda revisione costituzionale e del sistema partitico, onde evitare il suo tragico tracollo. È in questo contesto di generale delegittimazione, quindi, che “la magistratura avverte di poter agire secondo le sue prerogative e senza essere frenata e condizionata, come in precedenza, da un personale politico che si sentiva onnipotente, al di sopra della legge”. Ed è in questo stesso contesto che compaiono i “franchi tiratori” che impediscono, sempre in quel cruciale ’92, l’elezione al Quirinale di Andreotti (così com’era previsto da un accordo preelettorale, che prevedeva anche il ritorno di Craxi a Palazzo Chigi), al posto del quale viene eletto, all’indomani della strage di Capaci e con l’appoggio determinante del PDS, il democristiano Presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro. Questi, tenuto conto degli sviluppi dell’inchiesta milanese, anche se non avevano ancora coinvolto Craxi, preferì nominare Primo Ministro il sobrio Giuliano Amato, non a caso chiamato “il dottor sottile”, più defilato e più tecnico dell’esuberante leader del PSI. Con la sola legittimazione derivante dalla nomina presidenziale (“l’articolo 92 della Costituzione ha finalmente trovato una qualche sua applicazione”, dichiarò lo stesso Amato dopo la presentazione del proprio governo), e con il sistema partitico allo sfascio (si ricorderà, in particolare, la continua sostituzione di ministri che in quell’anno vennero coinvolti nelle indagini giudiziarie), il governo Amato adottò, come si sa, la più imponente manovra finanziaria di sempre (anche in termini nominali), pari a circa 92mila miliardi di lire dell’epoca. Nel frattempo, nel mese di settembre ’92, la valuta italiana era sta
ta svalutata e sbalzata fuori dallo SME, assieme ad altre valute europee tra cui la sterlina inglese. Mentre il sistema partitico si stava ristrutturando in senso maggioritario, con il governo Amato ebbe inizio, dunque, il processo di risanamento finanziario del Paese che fu portato avanti, nel corso degli anni ’90, da governi tecnici (sostenuti da forze di centrosinistra) e governi politici propriamente di centrosinistra, nei quali, per la prima volta dal ’47, entrava a far parte l’ex PCI, nel frattempo ridenominato “PDS”. Così, al costo di privatizzazioni, deregulation, sacrifici, tagli allo stato sociale, al sistema previdenziale pubblico, ed al costo del lavoro, e di una vasta precarizzazione di quest’ultimo, la spesa pubblica scese dal 57,7% del PIL del ’93 al 46,9% del 2000, mentre le entrate totali rimasero stabili attorno al 46,5% del PIL; il deficit pubblico scese, in rapporto al PIL, dall’11,7% del ’91 allo 0,6% del 2000, grazie anche alla diminuzione dell’inflazione, dal 6,2% del ’91 al 2,6% del 2000, dei tassi d’interesse nominali (dal 12,2% del ’91 al 3% del ’99), e, di conseguenza, degli interessi sul debito (dal 13% del PIL del ’93, al 6,5% del 2000); anche il debito pubblico, pertanto, scese giù, dal già ricordato 124,8% del PIL del ’94 al 111,2% del 2000. Grazie a tutto ciò, e ad una congiuntura economica positiva a partire dal ’95, ma anche all’adozione di una nuova ingente manovra finanziaria per il 1997, l’Italia riuscì nell’impresa di entrare nell’UME nel ’99 col gruppo di testa, obiettivo “inimmaginabile fino a due o tre anni prima”. Ad eccezione del controverso “buco di bilancio” che il secondo governo Amato avrebbe lasciato in eredità, nel 2001 il governo Berlusconi ha “preso in consegna”, dunque, un Paese con un debito pubblico ridimensionato (110,9% del PIL nel 2001) ed un deficit sotto controllo. Se l’obiettivo strategico che ha ispirato la politica economica dei governi di centrosinistra negli anni ’90 è stato quello del risanamento finanziario, al contrario l’obiettivo dichiarato che ha ispirato la politica economica del governo di centrodestra presieduto da Berlusconi nell’ultima legislatura è stata la riduzione della pressione fiscale (“meno tasse per tutti”), anche a costo di “sforare” i vincoli di bilancio posti dal Patto di Stabilità, ritenuti inutili “lacciuoli” alla crescita economica. Questo obiettivo, però, è stato perseguito non attraverso un piano organico, bensì attraverso una serie di provvedimenti estemporanei tali da non provocare effetti strutturali sul bilancio. Si è trattato, quindi, della famosa “finanza creativa” del suo vulcanico Ministro Tremonti, i cui principali provvedimenti sono stati l’abolizione della tassa di successione, gli sgravi fiscali sugli investimenti (cd. “Tremonti bis”), le cartolarizzazioni, i condoni, la riforma fiscale in due fasi, il parziale innalzamento delle pensioni minime, per arrivare, infine, allo scontro con le parti sociali sulla flessibilità del mercato del lavoro. Questi provvedimenti estemporanei non solo non hanno migliorato la difficile stagnazione economica dei primi anni duemila (crescita media annua del PIL pari ad un misero 0,7% nella legislatura, contro una propagandistica ed improbabile previsione al 3% ), ma, a causa anche di quest’ultima, hanno provocato l’effetto di deteriorare nuovamente i conti pubblici: il deficit, infatti, è rimasto stabilmente al di sopra del fatidico 3% a partire dal 2003, e nel ’05 ha raggiunto quota 4,2%. Di conseguenza, anche la riduzione del debito si arrestò a quota 104% del PIL nel ’04, per poi risalire nuovamente sopra quota 106% nel ’05. Fino ad allora, il governo Berlusconi era riuscito a scansare le famigerate sanzioni finanziarie della Commissione Europea, sia perché, in occasione del Consiglio Europeo di novembre ’03 a Napoli (con l’Italia presidente di turno dell’UE), come si è accennato, Francia e Germania furono “graziate” (benché i loro deficit avessero superato addirittura il 4% del PIL in quell’anno), e sia perché i conti pubblici furono adeguatamente “ritoccati”, in modo tale che il deficit italiano degli anni ’03 e ’04 risultasse non superiore al 2,7% del PIL. Una volta scoperto l’inganno, però, il governo Berlusconi, che entrava nell’ultimo anno di legislatura, dovette negoziare con la Commissione Europea, al fine di evitare le sanzioni, un piano di rientro del deficit al di sotto del 3% del PIL entro il 2007. Dopo l’esito, ancorché incerto, delle elezioni 2006, fu chiaro che il compito di togliere le castagne dal fuoco sarebbe toccato, ancora una volta, al governo Prodi. Il Patto di Stabilità e la manovra finanziaria del 2007 Sulla scorta delle scelte di politica economica effettuate in Italia dai due schieramenti negli ultimi dieci anni, Ricolfi ha intitolato un capitolo di un suo brillante pamphlet, pubblicato un paio di anni fa, “Il mondo alla rovescia”, ritenendo che in questo periodo in Italia le politiche economiche tradizionalmente di sinistra siano state attuate in misura maggiore dal governo di centrodestra, e viceversa. Benché, ad un’analisi più accurata, questa conclusione debba essere parzialmente smorzata, alcune considerazioni di fondo restano comunque vere. In sintesi, si può dire che: a) la pressione fiscale nel corso della legislatura di centrosinistra è aumentata nei primi anni, per la necessità di centrare l’ingresso nell’UME, e poi è diminuita negli ultimi due anni (dal 42,2% del ’96 al 43% del ’99, e poi di nuovo al 42,2% nel ’01), così da ritornare al livello iniziale. Essa è invece leggermente diminuita, ma meno di quanto annunciato, nella legislatura del governo Berlusconi (dal 42,2% del ’01 al 41,3% del ’05), anche se le stime per il 2006 indicano un’ulteriore riduzione, attorno al 40,6%; b) la spesa per il welfare è aumentata nel corso di entrambe le legislature, ma in misura maggiore durante il governo Berlusconi (rispettivamente, dal 18,9% del PIL al 19,2% negli anni del centrosinistra, e dal 19,2% fino al 20,3% del ’05), anche se tale aumento è imputabile più ad una mancata crescita del denominatore che non ad una reale crescita della spesa sociale; c) il deficit pubblico è diminuito nel corso della legislatura di centrosinistra, mentre è aumentata in quella successiva (rispettivamente, dal 7,1% del PIL del ’96 allo 0,6% del 2000, e poi al 3,2% del ’01; successivamente, da questo valore fino al 4,1% del ’05). Nel primo anno del nuovo governo Prodi, inoltre, questo avrebbe ricominciato a scendere sensibilmente, fino al 2,4% del PIL, se non fosse per gli oneri una tantum legati alla sentenza europea sull’Iva per le auto aziendali, che il governo pensava di non dover considerare nel conteggio, e che invece fanno risalire il deficit al 4,4% del PIL per il 2006. In ogni caso, è prevista la riduzione fino al 2,8% per il 2007; d) di conseguenza, il debito pubblico è rapidamente diminuito negli anni dei governi di centrosinistra, mentre ha rallentato la sua riduzione, fino a tornare a crescere, durante il governo Berlusconi. Da questa breve comparazione delle due politiche economiche, si può concludere che il governo Prodi e la sua maggioranza, benché siano formalmente di centrosinistra e pertanto, almeno in teoria, dovrebbero essere più “predisposti” ad adottare una politica fiscale più espansiva e redistributiva, in realtà non soltanto non ha mai dimostrato tale “predisposizione”, ma ha introiettato a tal punto l’apparato concettuale che sta dietro ai vincoli del Patto di Stabilità, da mettere al Ministero dell’Economia, come sorta di fideiussore dell’elevato debito pubblico italiano, uno dei più autorevoli “padri” dell’Euro, Tommaso Padoa Schioppa. Per contro, la maggioranza di centrodestra del governo Berlusconi ha maggiormente perseguito un’autonoma politica economica di destra, perseguendo la riduzione della pressione fiscale, ma limitandosi a non far crescere la spesa pubblica (rimasta pressoché stabile attorno al 49,2% del PIL nel corso della legislatu
ra, a differenza delle riduzioni operate dai precedenti governi di centrosinistra) con provvedimenti estemporanei; inoltre, il governo Berlusconi ha tollerato pochissimo le ingerenze europee ed i vincoli del Patto di stabilità. Questo dovrebbe essere sufficiente per spiegare perché la manovra finanziaria 2007, la prima varata dal nuovo governo di centrosinistra è stata così cospicua. In più, si tenga presente che, qualora il rientro del deficit al di sotto del 3% non dovesse avvenire entro quest’anno (ipotesi che comunque appare improbabile, visto anche l’extra gettito fiscale registrato in questi primi mesi dell’anno), potrebbero incombere ancora una volta le famigerate sanzioni previste dal Patto di stabilità, anche se, tenendo conto della già ricordata formula di stabilizzazione del debito, ed ipotizzando per quest’anno (secondo stime prudenziali) una crescita nominale del PIL pari al 4% (con un’inflazione al 2% circa), la discesa del debito (ad esempio, verso il 90% del PIL) sarebbe stata garantita anche con un deficit non superiore al 3,6% del PIL. In questo modo, sarebbe stato possibile destinare maggiori risorse allo sviluppo, nel tentativo di sollecitare una crescita del PIL più elevata negli anni successivi, e per questa via proseguire il risanamento. In ogni caso, si sarebbe trattato di un rientro più graduale che non avrebbe pregiudicato l’eterno processo di “risanamento” dei conti pubblici italiani, e che avrebbe impedito, come si dice in questi casi, di “uccidere” la crescita economica nella culla. Infatti, per far scendere così rapidamente il rapporto tra deficit e PIL, la manovra finanziaria 2007 ha previsto non soltanto nuove entrate per dodici miliardi di euro, tra lotta all’evasione e nuove imposte, ma ha soprattutto operato tagli alla spesa pubblica per ulteriori dodici miliardi in settori cruciali come la sanità, l’istruzione, la ricerca e gli Enti Locali (su cui si è già tagliato abbondantemente negli ultimi otto anni), e si minaccia di farlo sul sistema previdenziale, attraverso una nuova riforma. Paradossalmente, invece, sono state ulteriormente aumentate le spese militari per il mantenimento della “missione di pace” in Afghanistan e per il finanziamento della nuova missione in Libano. A fronte di questa situazione, inoltre, si è deciso di finanziare, per circa sei miliardi di euro, il taglio di ben cinque punti percentuali del cuneo fiscale a favore delle imprese (per la precisione, il 60% di questo taglio è stato destinato alle imprese, mentre il restante 40% è stato utilizzato per introdurre delle detrazioni fiscali per le famiglie più numerose). In questo modo, il rischio è quello di strozzare la crescita impedendo, ancora una volta, la ripresa dei consumi e la redistribuzione del reddito. Questa situazione, infine, risulta essere aggravata dalle scelte di politica monetaria adottate dalla BCE negli ultimi mesi che, pur in assenza di sostanziali tensioni inflattive, ha deciso nell’ultimo anno un innalzamento di oltre un punto percentuale (da 2,2% a 3,5%) dei tassi d’interesse, soltanto perché le previsioni di crescita economica in Europa per gli anni 2006 e 2007 sono, finalmente, un po’ più alte rispetto ai bassi livelli degli anni precedenti. Conclusioni Si è visto che l’ingente debito pubblico italiano ha origini lontane e diverse: è il frutto della peculiare storia politica italiana e delle conseguenti scelte di politica monetaria ed economica fatte nel corso degli ultimi 35 anni. Nei primi anni ’90, l’entità e la dinamica del debito pubblico italiano furono tali da porre in serio pericolo la sua solvibilità e la stabilità monetaria del Paese, e fu questa una delle cause che agevolò il collasso del vecchio sistema partitico (che prese impropriamente il nome di “Prima Repubblica”). Spettò alla formazione erede del vecchio PCI guidare le coalizioni di governo che nel corso degli anni ’90, legittimate dai vincoli imposti dall’Europa, riuscirono nell’impresa di “risanare” le finanze pubbliche italiane, facendo pagare il conto, però, al sistema di welfare, ai salariati, ed alle garanzie del mondo del lavoro. Si è visto anche che la definizione dei vincoli ai bilanci pubblici nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità hanno avuto una genesi del tutto peculiare: sono stati il frutto non soltanto del paradigma economico dominante (sfiducia nella politica, fiducia nella tecnica, priorità alla stabilizzazione monetaria anziché alla crescita ed all’occupazione, ecc.), ma anche delle ansie delle tecnocrazie tedesche e dell’Europa Centrale. Dal punto di vista economico, non vi è razionalità nella definizione dei parametri, che risulta essere, infatti, del tutto arbitraria. Se negli anni ’90 il percorso di integrazione monetaria, pur avendo avuto una ricaduta negativa sia in termini di mancata crescita economica, sia in termini di concentrazione del reddito, ha avuto comunque il merito di salvare l’Italia dal rischio di insolvenza del proprio debito, questo non vale più negli anni 2000. La politica monetaria eccessivamente restrittiva adottata dalla BCE e gli irrazionali vincoli posti dal Patto di stabilità, pertanto, sono alla base del grave e prolungato periodo di stagnazione economica attraversato dall’Europa nei primi anni del nuovo millennio e, per quanto riguarda l’Italia, sono alla base (congiuntamente alle gravi debolezze strutturali del sistema industriale del Paese) di uno dei periodi di crisi economica più gravi di tutta la sua storia unitaria. Per contro, il debito pubblico italiano, ancorché molto elevato, risulta essere attualmente stabilizzato, e nell’Unione Monetaria, come si è visto, il rischio di insolvenza risulta essere estremamente ridotto. Appare quindi necessario che il governo di centrosinistra cominci ad adottare una politica economica più espansiva, volta al rilancio dei consumi, della crescita, di occupazione stabile e di una nuova redistribuzione del reddito, e che, per questa via, prosegua nella progressiva riduzione del debito pubblico.